venerdì 29 luglio 2011

0 Shampoo (1975)

George (Warren Beatty) è uno scopatore incallito che nel poco tempo libero lavora come parrucchiere in un salone di bellezza a Beverly Hills. Siamo alla fine degli anni 60, epoca di sesso libero e contestazione, ma George è interessato unicamente al primo di questi fattori. Non sente l’esigenza di prendere un impegno serio con nessuna donna ed è capace di mentire a tutte senza che loro per lungo tempo se ne rendano conto, ognuna di esse attratta dal fedifrago impunito. C’è la donna di mezza età trascurata dal ricco marito provvisto di amante, c’è la ragazza acqua e sapone, c’è la vecchia fiamma e qualunque donna capiti a tiro nel raggio di influenza di George. Le cose però cambiano quando si rende conto di essersi innamorato per la prima volta di una donna, Jackie, ma purtroppo lei ha già preso un impegno con un altro uomo che le può offrire protezione, soldi e sicurezza.

Il film è considerato in America una delle migliori 100 commedie statunitensi ma a mio modo di vedere è difficile inquadrare la pellicola nell’ambito “fatti una risata tra un pop corn e l’altro”. Si tratta infatti di uno spaccato di vita quotidiana degli anni 60 in un quartiere di ricchi e viziati dove persino un uomo tutto sommato inetto è capace di mettere a frutto i suoi due unici talenti (scopare e pettinare) per vivere come un pascià. Non ci sono figure positive in questo film, tutti infatti arrivano a imboccare strade di convenienza pur di non accettare la realtà oppure chi la accetta finisce per unirsi ad un uomo che in realtà non ama ma che le offre protezione e nessun grattacapo. Il film comunque scorre veloce e fa sorridere in alcuni frangenti ma sempre con un che di amaro o schiettamente volgare. Warren Beatty è il solito mascellone con l’espressione da pesce lesso ma per chi lo apprezzasse guardando il film ne potrà scoprire più volte il lato B. In giro c’è di meglio ovviamente ma trattandosi di un film con molte candidature all’Oscar merita comunque di essere visto.

VOTO 6  

mercoledì 27 luglio 2011

0 Heidi–Johanna Spiri

Trama: La storia si ambienta nell’800 in Svizzera e a Francoforte e racconta la storia della piccola Heidi, un’orfana di cinque anni che viene portata dalla zia Dete su all’Alpe dove vive suo nonno, un uomo solitario che sfugge la gente e che ha scelto, dopo la morte dell’amato figlio, di vivere lontano da tutti. Heidi, una bambina semplice e fino ad allora poco amata scopre piano piano un mondo bellissimo fatto di natura incontaminata e semplicità. Conosce il pastorello Peter e con lui inizia a recarsi ogni mattina sulla sommità del monte per portare al pascolo le caprette, anch’esse molto legate alla bimba e sue uniche compagne a parte il nonno.

Due anni dopo però la bimba viene di nuovo portata via dalla sua nuova casa dalla zia Dete che la porta a Francoforte dove dovrà fare da amica e compagna di giochi a Clara, una bambina impossibilitata a camminare e perciò molto sola nella sua grande e maestosa casa di città. Qui Heidi conosce la terribile Rottenmeier la governante di casa Sesemann che subito la fa sentire inadeguata e incompresa più di quanto si senta già da sola, chiusa tra quattro pareti senza un minimo di verde a ricordarle l’Alpe. Le uniche persone che le mostrano simpatia sono il maggiordomo Sebastian, il Dottore e la Nonna di Clara. Heidi pian piano impara a leggere così da poter apprezzare le storie edificanti presenti nel libro che le dona la signora Sesemann, l’unica persona in grado di esortare la bimba all’impegno e allo studio e soprattutto a insegnarle a pregare. Heidi da quel momento vive in un misto di serenità per aver imparato a fare qualcosa che riteneva impossibile e la rassegnazione di non poter mai più fare ritorno dal nonno. La sua unica consolazione sono le immagini del libro che mostrano paesaggi montuosi e ricchi di verde, il resto della sua vita è invece scandito dagli orari di Clara e dagli obblighi imposti dalla governante, sempre più insofferente nei suoi confronti. Alla fine è il Dottore che capisce che la bambina sta male e rischia di morire a meno che non torni al più presto in Svizzera, cosa che puntualmente accade e che riporta la gioia nel cuore di Heidi.

L’inverno successivo al suo ritorno sul monte il nonno si decide a trasferirsi per la stagione fredda a Dorfli in modo che Heidi possa frequentare la scuola come tutti i bambini del paese. Da questo momento anche il vecchio viene reintegrato nella società che fino a quel momento lo respingeva ritenendolo pericoloso ma che finalmente si rende conto che in realtà si trattava di un uomo onesto e di sani principi. Con l’estate Heidi ritorna nell’alpeggio e dopo qualche tempo viene a trovarla Clara che viene invitata a fermarsi per un mese. Durante questo tempo la giovane invalida ritorna ad essere una ragazzina in salute e finalmente felice. Peter geloso dell’amicizia tra Heidi e Clara decide poi di rompere la sedia a rotelle della bambina ma questo gesto apparentemente tremendo porta invece ad un finale insperato in quanto Clara piano piano ritorna a camminare grazie all’aiuto di Heidi e del nonno.

Il romanzo si chiude con Heidi, il nonno e il Dottore che vivono serenamente insieme a Dorfli durante l’inverno e nella baita di montagna in estate. Heidi non sarà mai più una bambina infelice e sola.

Commento: Il romanzo è sicuramente meno conosciuto dell’amatissima e intramontabile serie animata che ha accompagnato l’infanzia dei bambini dagli anni 70 in poi e che rispetta in modo piuttosto fedele la controparte narrativa. Certo quando si legge il libro, scritto in modo delizioso (scorrevole ma allo stesso tempo non infantile), i personaggi che ci vengono alla mente sono ovviamente quelli degli anime e viene quasi automatico affezionarsi a questo piccolo gioiello della narrativa per ragazzi. Non è un romanzo che solitamente è presente nelle librerie di casa proprio per il fatto di ignorare che esista un libro da cui è stato tratto il cartone animato e non viceversa. Ci troviamo infatti davanti ad un’opera del lontano XIX secolo che i grandi artisti giapponesi sono stati in grado di portare alla notorietà mondiale offrendo la possibilità a chi fosse curioso di immergersi in una lettura che coinvolge senza stancare mai. E’ un romanzo altamente edificante, ricco di buoni sentimenti e con un grande amore per le cose semplici, spesso le migliori che la vita ci può donare e che possono dare un senso vero alla vita. Dio è molto citato come è giusto aspettarsi da un romanzo rivolto all’infanzia, in quel tempo incanalata dalla letteratura verso un percorso moraleggiante che portasse esempi di vita da seguire allontanando le giovani generazioni dai pericoli del vizio e dei capricci. Tutto ciò per noi è quanto meno anacronistico e fuori tempo ma sappiamo che è il segno dei tempi che cambiano, ora vogliamo per i bambini storie di maghi o eroi fantasy, non precetti morali che mal si sposano con un’epoca tecnologica e progressista. E’ un peccato che certi capolavori non siano pubblicizzati come romanzi evergreen ma che siano relegati in posizioni di basso profilo, come edizioni ridotte per bambini piccoli o nel reparto classici, spesso lontano dal settore occupato dalla letteratura per l’infanzia. Io comunque lo consiglio vivamente a tutti i genitori sperando che possa essere riscoperto e perché no accompagnato dalla visione contemporanea del bellissimo anime targato Takahata.

Voto: 10    

     

martedì 26 luglio 2011

0 Quando gli incivili ti inquinano il quartiere e il comune di Cagliari non fa niente

Da quando sono nata ho sempre pensato che il mio quartiere fosse l’isola della borghesia, una zona a tasso zero di inciviltà e vandalismo e questo mi rendeva sicura sia nel tornare a casa la sera sia nel dormire nel mio letto la notte. Parlo del quartiere di San Benedetto a Cagliari, cuore pulsante del capoluogo sardo ma fino a qualche anno fa privo di gelaterie, di bar di vecchi ubriaconi, di locali di specialità siciliane e di kebabberie. Era un quartiere che calava le serrande alle 8 di sera per rialzarle alle 8 dell’indomani. Parcheggio scarso allora, ora decisamente un miraggio. Ma questo è il minimo anche se quando sei residente un bel po’ ti rompi il cazzo del negoziante con la macchina in doppia fila così come i suoi villici clienti o degli avventori della gelateria di turno (Fruit n’co.) che piazzano la macchina dove merda gli capita. Io non sono della scuola di pensiero che sostiene che la vita notturna renda più sicura un quartiere perché più frequentato, anzi penso che da quando la mia zona è diventato una tappa della movida noi tutti abbiamo visto peggiorare la nostra tranquillità

Faccio qualche esempio: schiamazzi a qualunque ora, macchine piazzate dove capita, ragazzini che pisciano contro i muri dei palazzi, schegge di bottiglie di birra ovunque, tamponamenti un sabato sì e l’altro pure, vetrine danneggiate e ciliegina sulla torta un cassonetto della carta dato alle fiamme. Quest’ultimo fatto lo ritengo di una gravità fuori dal comune, soprattutto perché capitato in via San Benedetto, una via a fitta percorrenza e visibilissima. Come dire: guardate e ammirate come so danneggiare la roba di proprietà altrui. Niente è stato fatto, niente è stato detto né nei telegiornali, né sui quotidiani locali (Unione Sarda) più interessati al gossip estivo o alla beatificazione del signor Berlusconi piuttosto che allo scadimento della vita nella nostra città.

Una volta mi hanno pure rovinato totalmente la carrozzeria della macchina con un oggetto tagliente e ho dovuto subire senza poter fare niente perché la mia Opel Corsa non ha bocca, occhi o udito e tantomeno una telecamera a circuito chiuso. Inghiotti e porta a casa, tanto in Italia l’interesse del residente viene sempre dopo quello dell’esercente, tanto è vero che nella mia via, una minuscola traversa di via San Benedetto, il Comune ha avuto l’assurda e vergognosa idea di mettere 10 posti per gli scooter, eliminando di fatto due parcheggi in una zona che presenta enormi difficoltà per chi non possiede un garage. Hanno così accontentato un bar di malaffare frequentato dai soliti zozzoni di ogni età (i vecchi beoni, i perdigiorno del cafferuzzo a qualunque ora, i drogati della slot machine) e un servizio di posta celere dove non entra mai nessuno. Inoltre all’incirca un anno fa sempre il Comune di Cagliari ha concesso (sempre in via Corelli) un passo carrabile ad un’agenzia di scommesse e qualcuno mi spieghi perché visto che non mi sembra che tali attività necessitino di un carico e scarico. Beh questo ha avuto come conseguenza un ulteriore diminuzione dei parcheggi disponibili e lo spostamento dei vari cassonetti dalla parte del mio portone perché li impestavano l’aria degli scommettitori. L’agenzia di scommesse ha chiuso e tutto è rimasto tale e quale.

Grazie al comune di Cagliari   

0 Una ragione per vivere e una per morire

Oggi ho ucciso per la prima volta”

Io per l’ultima

Questa è la chiusa della pellicola e diciamo che quasi quasi valeva da sola il prezzo del biglietto nel lontanissimo 1972, epoca d’oro dei cosiddetti Spaghetti Western, genere al quale appartiene di diritto questo celeberrimo film interpretato da un bravo Bud Spencer, un segaligno James Coburn e un quasi anonimo Telly Savalas.

Come nei più classici film western ci troviamo all’epoca della guerra tra Nordisti e Sudisti nello stato del New Messico, territorio arso dal sole e caratterizzato da piccoli borghi dotati di saloon, drogheria e ufficio dello sceriffo. La storia principale riguarda il colonnello nordista Pembroke (James Coburn), desideroso di vendetta nei confronti del maggiore sudista Ward (Telly Savalas), macchiatosi dell’uccisione del figlio di Pembroke. Il piano dell’ex colonnello consiste nell’occupare il Forte dove stazionano i Sudisti e Ward, ma per fare ciò ha bisogno di uomini e gli unici che riesce a mettere insieme sono dei condannati a impiccagione a cui viene offerta la possibilità di salvare la propria vita partecipando all’azione di guerra. Tra di loro c’è anche Sampson (Bud Spencer) un ladruncolo che subito si affeziona a Pembroke e che avrà un contributo importante per la vittoria finale.

Dico subito che non sono una estimatrice del genere western perciò il mio giudizio potrebbe non valere niente o nascere da pregiudizi atavici, visto che ho sempre cambiato canale al solo vedere covoni che rotolano nel deserto o pellerossa inseguiti da cowboy.

Ho trovato il film lentissimo per la prima ora e poi molto coinvolgente nella parte finale, quella più pregna di significati, dove ci si immedesima nel manipolo di disperati che tentano un impossibile attacco al fronte nemico, tutti guidati da scopi diversi ma ugualmente determinati a vincere o morire. Mi ha molto colpito Bud Spencer, molto bravo, stavolta più attento alla recitazione che alle botte da orbi, tipiche del suo personaggio. Coburn più che credibile nella parte dell’uomo ferito dal destino e ormai disinteressato alle sorti della guerra tra Nord e Sud ma guidato solo da un’umana sete di vendetta per un suo lutto personale. Savalas compare poco e solo nelle battute finali e diciamo che il suo contributo non è così intenso come quello degli altri protagonisti ma fa comunque apprezzare la sua parte da cattivo di turno.

La trama non è male, il film è guardabile.

Voto: 6,5 

  

mercoledì 20 luglio 2011

0 Inferno (1980)

Non mi ritengo un’esperta delle opere cinematografiche di Dario Argento, anzi ad essere sincera questo è il suo primo film che mi capita di vedere  nonostante mi ritenga una cultrice di pellicole horror. Il primo impatto è stato positivo,devo ammettere infatti che sono rimasta sinceramente colpita sia dalla trama (cavillosa e contorta come piace a me) che dagli effetti speciali che considerato l’anno di produzione sono altamente spettacolari.

Ci troviamo al cospetto di un horror di matrice sovrannaturale con elementi di tensione e sequenze splatter con inquadrature dettagliate su squartamenti, decapitazioni e ferite di varia natura. Gli elementi di tensione sono, come spesso accade nei film di Argento, sottolineati da temi musicali ad effetto e da un grande uso di luci rosse al di là di superfici trasparenti. La recitazione non è granché così come la fotografia in generale, segno inequivocabile dei tempi….tempi in cui si puntava tutto sui contenuti piuttosto che sull’estetica. Perdonabile considerato che i vari horror di scuola americana dello stesso periodo (se non addirittura successivi) presentano la stessa tecnica artigianale (Nightmare, la Casa, etc…) e sono considerati a ragione dei veri e propri cult movie.

Molto tangibile l’atmosfera onirica che ammanta tutto di elementi di sospensione e attesa. Corridoi interminabili che portano in luoghi polverosi o dimenticati da Dio, situazione del tutto simile a ciò che si sogna nei peggiori incubi. Ci sono ovviamente anche alcune assurdità tipo un piano sotterraneo della casa di New York sommerso dall’acqua che esce da una conduttura rotta oppure lo studio di un alchimista all’interno di una biblioteca romana. Inoltre non mi è chiaro come mai nonostante si dica chiaramente che le Tre Madri hanno la loro residenza a New York, Roma e Friburgo quest’ultima sia stata totalmente tralasciata lasciando così scoperto un pezzo importante del domino. Interessante la figura del vecchio architetto che riesce a parlare solo con un amplificatore all’altezza della gola, ma ne godiamo poco perché viene fatto fuori in tutta fretta per lasciare spazio ad un finale alquanto banalotto: la casa è arsa dalle fiamme e viene rivelato che in realtà la madre è una sola e il suo nome è Morte.

Tutto sommato quindi è un ottimo esempio di film horror anni 70, un po’ troppo giocato sulle scene forti ma che regala davvero più di un brivido sulla schiena. Consigliato ma non a chi ama i gatti.

Voto: 7 

lunedì 18 luglio 2011

1 La settima donna (1978)

Film stranissimo, una via di mezzo tra una ciofeca pazzesca e una genialata.

La storia parla di tre rapinatori che decidono di rifugiarsi in una villa a due passi dal mare, in realtà un collegio femminile gestito da una suora in abiti borghesi. Insieme alla suora ci sono cinque studentesse e una cameriera che viene uccisa dopo pochi istanti nel tentativo disperato di fuggire. Da quel momento per le sei donne rimaste inizia un incubo fatto di violenza e stupri, a cui viene sottoposta anche la coraggiosa suora.

I protagonisti sono un giovanissimo Ray Lovelock e un’intensa Florinda Bolkan. Il film respira un’atmosfera pienamente anni 70, dove non si sfugge dal sesso e dall’inquadratura maliziosa di seni in bella mostra. Nonostante ciò impossibile negare che in alcuni frangenti si senta l’angoscia dell’impotenza e dell’impossibilità di fuggire dalla grande casa con pietre a vista. Il regista ha giocato molto bene tra il sesso e la paura fino a creare una pellicola che potrebbe entrare di diritto tra i cult movie della fine degli anni 70.

All’inizio vediamo inquadrati solo i piedi e le gambe dei tre uomini mentre stanno compiendo la rapina in banca e non riusciamo a capire il ruolo di ognuno di essi. Con questa scelta, il regista Prosperi, ci fa pensare per buona parte del film che il biondo della banda sia il più umano, mentre col trascorrere dei minuti assistiamo ad un flash back che mostra come in realtà sia stato lui quello che si è macchiato dei due omicidi avvenuti durante la rapina. Per passare invece al titolo del film, ovviamente si capisce che la “settima donna” non è altro che la suora, anch’essa donna dopo lo stupro, donna anche prima di indossare i paramenti sacri ma soprattutto donna prima dei titoli di coda quando rinuncia al crocifisso per uccidere i suoi persecutori.

Non so io ripeto ho trovato il film interessante e a tratti angosciante. Lo consiglio a chi vuole godersi un thriller in salsa italiana.

Voto: 7

venerdì 15 luglio 2011

0 The weather man–L’uomo delle previsioni (2005)

Il film è parecchio intenso, profondo e intimista. Un film che lascia il segno nonostante abbia letto da più parti pareri pessimi riguardo all’oggetto in questione. Si è parlato soprattutto del dfatto che la trama sia poco realistica e che la famiglia rappresentata sia il peggio esistente nell’umanità. Non è mancata neanche la critica gratuita sulla presunta volgarità del film.

Io non so cosa dire rispetto a queste voci prive di fondamento, in quanto io ho trovato il film splendido e coinvolgente, capace di emozionare e far riflettere. Gran parte del merito va divisa in parti eque tra il regista Gore Verbinsky (papà dei due primi capitoli dei Pirati dei Caraibi e della trasposizione statunitense del cult movie The Ring) e il grande, grandissimo Nicolas Cage, particolarmente in palla nel recitare la parte dell’uomo insicuro, sconfitto da se stesso e dalle aspettative paterne mancate.

Il film racconta in prima persona la storia di David Spritz, un figlio d’arte (il padre è un giornalista premiato col Pulitzer e uno scrittore apprezzato) che lavora come “meteorino” in una tv locale, guadagnando tanti soldi ma riscuotendo le antipatie di molti che esprimono il loro disprezzo verso di lui lanciandogli periodicamente addosso prodotti dei fast-food. David tenta anche la strada della scrittura ma con poco successo visto che il suo lavoro viene disprezzato dalla sua stessa famiglia che lo ritiene spazzatura. David insomma vorrebbe che suo padre fosse fiero di lui ma sa che la strada da lui scelta non può essere apprezzata da chi nella vita ha studiato e lottato per arrivare in alto, non accontentandosi di fare tv spazzatura o di condurre una vita mediocre. Inoltre a peggiorare il suo stato d’animo ci sono anche le beghe familiari: sua moglie l’ha lasciato e i suoi due figli sono ragazzi fragili: la bambina è obesa e presa in giro dai compagni e il figlio maschio va da uno psicologo che arriva a molestarlo sessualmente.

Mi ha molto colpita l’assoluta consapevolezza di David di essere un mediocre e l’entusiasmo che lo prende nello scoprire che c’è qualcosa che sa fare bene: il tiro con l’arco. Lui sa che la gente non lo vede per quello che è, ma solo per quello che vede attraverso uno schermo televisivo e la cosa lo fa impazzire ma allo stesso tempo non riesce a staccarsi da un treno che lo può portare a guadagnare ancora di più, pazienza se non era la strada che aveva desiderato anni prima. Sa di aver deluso l’adorato padre ma sa anche che mentre gli anni trascorrono le strade da scegliere diventano sempre meno fino a diventare una sola, ed è quella che ci rappresenta nel bene e nel male, perciò l’unica soluzione è seguirla fino in fondo perché é l’unica rimasta. L’unica che ci conferisce un’identità.

Non sappiamo che ne sarà di David, tranne che andrà a lavorare ad Hallo America e guadagnerà più di un milione di dollari. La moglie si risposa e i figli crescono lontano da lui che ha preferito il guadagno alla possibilità di star loro accanto, se non per i week end. Forse è una pellicola sulla sconfitta dell’uomo moderno o forse solo la storia di un uomo che troppo tardi si è reso conto di aver perso tutto quello che contava veramente. David però verso la fine prende le sue decisioni e cerca di aiutare i suoi figli nel modo che pensa sia quello giusto, ossia difendendoli da una società cattiva e malata.

Bello.

Voto: 8

giovedì 14 luglio 2011

0 Souvenir d’Italie (1957)

Tre ragazze straniere decidono di girare l’Italia in autostop, alla scoperta dei luoghi più rappresentativi del Bel Paese: Portofino, Venezia, Firenze, Pisa e Roma. Durante i loro peregrinaggi fanno la conoscenza di vari personaggi che renderanno la loro vacanza il passaporto per una lunga felicità amorosa, infatti tutte e tre incontrano l’uomo della loro vita e si innamorano per la prima volta.

La trama è molto improbabile in quanto sembra alquanto strano pensare che seppur negli anni 50, fosse auspicabile per delle donne viaggiare non solo sole ma pure in autostop come se la società di allora fosse esente da porcherie e malintenzionati.

A parte ciò e tralasciando il fatto che il film è stato girato interamente a Cinecittà (togliendoci anche la flebile gioia di aver goduto di bellezze artistiche reali e non posticce), ciò che traspare è la volontà da parte del regista di imbastire una storia che abbia come filo conduttore il passaggio dal “girl power” al tradizionale e molto italico finale in salsa romantica, con le ragazze che capiscono che ciò che le può rendere veramente felici è solo stare con l’uomo che amano.

Ognuna di esse poi rappresenta una diversa tipologia di essere umano femminile: la donna istrice ricca boriosa e diffidente, la donna dolce e premurosa, la donna volubile e leggera, tutte però volte verso l’amore con la a maiuscola, amore che troveranno in modo molto telefonato nel maschio italico, detentore delle qualità che in quegli anni si richiedevano ad un uomo: polso, virilità e prestanza fisica.

Il cast lascia parecchio a desiderare in quanto le tre donzelle sono vacue come acqua sgasata e gli uomini sono per lo più sconosciuti o protagonisti in quegli anni della commediola all’italiana di poco peso (vedi Antonio Cifariello). Solo brevi cammei per Vittorio De Sica nel ruolo del conte squattrinato e per Alberto Sordi nella parte dell’accompagnatore di una donna anziana e facoltosa. Poco per risollevare le sorti di un filmetto da domenica pomeriggio. Innocuo e dimenticabile.

Voto: 5

mercoledì 13 luglio 2011

0 Scatto mortale (2005)

Eccoci davanti ad un brutto film. Non c’è alcun motivo buono che porti un essere umano senziente a sprecare un’ora e un quarto della sua vita per stare a guardare un prodotto così scadente. Autentico cinema di serie B spacciato per un thriller ad alta tensione. Come dice una canzone di Samuele Bersani “sei solo la copia di mille riassunti” perché in effetti stiamo parlando di una pellicola in cui non c’è stato il minimo sforzo di cercare di essere originali o perlomeno credibili nella trama.

La storia ha al centro Bo, un attore scalcagnato che arriva inspiegabilmente al successo come protagonista di film action e improvvisamente cattura l’attenzione di quattro terribili paparazzi, gente priva di scrupoli che guadagna con finti scoop o con foto imbarazzanti. Il giorno che i quattro provocano un incidente in cui rimangono gravemente feriti il figlio e la moglie di Bo, quest’ultimo decide di farsi giustizia da solo eliminandoli sistematicamente. Le foto fatte dai fotografi d’assalto alle persone ferite all’interno dell’abitacolo è un atroce e squallido omaggio a ciò che accadde a Diana, compreso l’inseguimento in macchina. Già qui il film meriterebbe un giudizio pessimo ma quando poi vediamo Bo alle prese con stratagemmi quanto mai ridicoli per far morire i colpevoli proprio viene voglia di spegnere tutto e farsi una birra fredda.

Ripeto, è un film sconclusionato e frettoloso con un cast peggio che scadente. Sembrerebbe un film nato per il circuito televisivo ma chissà come è arrivato persino nelle sale cinematografiche.

Evitatelo se potete

Voto: 4

martedì 12 luglio 2011

0 Dylan Dog 166–Sopravvivere all’Eden

Trama: Doris e Simon chiedono l’aiuto di Dylan per rintracciare il mostro che ha ucciso il loro papà, non convinti della tesi della polizia che sostiene che in realtà si sia trattato di un suicidio. I due sono originari di uno strano paese chiamato Serenity, dove tutto ciò che è dannoso per la salute come smog, cibi industriali, alcolici, nicotina e droga viene tenuto al di fuori dei suoi confini, tanto da rendere quasi impossibile arrivare in città vista l’assoluta mancanza di indicazioni stradali. Dylan accetta l’incarico e i quattro (Groucho compreso) giungono nella strana cittadina dove i due londinesi fanno la conoscenza della mamma di Doris e Simon, Joanna il sindaco del paese. Dylan inizia ad integrarsi con la strana comunità del villaggio, notando come tutti siano estremamente cordiali anche con lui che in fondo è un forestiero. Tutti si dimostrano disponibili e bonari tranne Standford, un anziano abitante che non rispetta i divieti del paese, fumando e bevendo alcolici. Un giorno Dylan vede andare a fuoco la casa dei ragazzi, si precipita in loro soccorso ma viene aggredito da Joanna, armata di un coltello e con l’aria da pazza. Una volta scampati all’incendio la donna dimostra di non ricordare nulla di ciò che è avvenuto pochi istanti prima. A questo punto Standford decide di parlare con Dylan e gli rivela che in realtà Serenity è frutto di un esperimento condotto da lui stesso e dal dottore del paese diversi anni prima. Essi crearono una nuova realtà formata da criminali, pazzi e individui pericolosi che avrebbero dovuto essere ricondotti sulla buona strada attraverso una vita sana e priva di elementi nocivi. Scoprirono però che ciò non bastava e idearono un siero per il controllo sociale che in un primo momento sembrò funzionare ma che ben presto si rivelò inutile. Ora le vere personalità stanno riprendendo possesso degli abitanti di Serenity ormai non più gentili ma mostri assettati di violenza…

Commento: bellissima prova di Ruju in cabina di regia, ben assistito da Cossu al comparto tecnico. La storia scorre via in maniera impetuosa e coinvolgente, non lasciando spazio a momenti di vera calma, ma anzi portandoci vignetta dopo vignetta al parossismo finale. Una cittadina creata dal nulla per tentare di sedare pericolosi individui togliendo loro qualsiasi punto di riferimento nocivo. Sembra di assistere ad un Grande Fratello in salsa sanguinaria con un finale da Romero. Persino l’ultima geniale pagina ci fa scorrere quel brivido di paura che manca spesso in storie horror a fumetti. Mi è piaciuto tanto questo numero, non ho trovato nessuna incongruenza ed è inutile dire che l’ho letto tutto d’un fiato come raramente mi capita di questi tempi. Molto ben realizzata anche la storia d’amore tra Dylan e l’infermiera di turno. Mi è sembrata più reale del solito, più concreta e meno caratterizzata dal clichè “copulata mensile” dell’Indagatore dell’incubo. Un albo di ampio respiro in cui si sente il trascorrere dei giorni, cosa alquanto rara in un fumetto che spesso è poco attento all’elemento temporale.

Voto: 8      

lunedì 11 luglio 2011

2 Quando Nick Kamen ci faceva battere il cuore

Era il 1985 quando vedemmo per la prima volta il volto e il fisico perfetto di Nick Kamen, un modello aspirante cantante che all’epoca aveva solo 23 anni. Chi non ricorda il suo spogliarello all’interno di una lavanderia mentre si sfila i jeans per metterli a lavare e rimane ad aspettare in boxer, tranquillamente indifferente agli sguardi dei vicini? In quel momento nasce un mito, anche se poi il tempo inclemente ha trasformato un astro nascente in una delle tante meteore degli anni 80/90. Io avevo solo 8 anni all’epoca perciò il mio interesse per lui era pressoché assente, ma non potrò mai dimenticare il giorno che mia sorella maggiore tornò a casa con il primo disco in vinile di Nick Kamen, intitolato proprio Nick Kamen (1987), prodotto da Madonna che aveva intuito le potenzialità di quel ragazzo così simile a Elvis Prestley: labbra carnose, occhi chiari, ciuffone gelatinato e abbigliamento da dandy. Molti non credevano in lui, convinti che fosse più un prodotto commerciale creato a tavolino piuttosto che un cantante dotato di qualità canore. Come negare che quell’aspetto attraente, quelle movenze non fossero volutamente gestite da un bravo manager? Ma erano gli anni 80, quelli dove l’estetica contava più della qualità, dove l’involucro era più importante del contenuto. Era qualcosa che ignoravamo, tutti rapiti dall’irraggiungibile mito di plastica. Per noi era oro, era emozione allo stato puro. Era normale discutere tra amiche per le varie preferenze estetiche e musicali e ricordo molto bene come alle medie tutte mi andassero contro perché adoravo Nick Kamen. Detestavano il suo modo di stare sul palco, l’aspetto tutto fuorché virile, la voce poco profonda, la sua musica in generale. Io so solo che da under 10, consumavo i solchi del suo primo album e che quando mia zia mi regalò il secondo album US (1988) avevo gli occhi lucidi e la fretta di poggiare la puntina sul disco per ascoltare le nuove canzoni di Nick. Ricordo benissimo la copertina con un tipico paesaggio desertico americano, una strada polverosa e Nick appoggiato alla parete di un edificio. Mettevo il disco, prendevo un uniposca e lo usavo come microfono per cantare nel mio pessimo inglese le varie e belle canzoni di quell’album, di cui la più celebre è sicuramente Tell me. Che emozioni indescrivibili. Era un’epoca in cui non mi rompevo di ascoltare fino al rincoglionimento totale gli stessi brani per ore ed ore. E cosa dire di quando vedevo Nick ospite in qualche programma musicale come Festivalbar o Un disco per l’estate? Impazzivo letteralmente, un po’ come mi sarebbe successo qualche anno dopo con i Take That. Non mi sono lasciata sfuggire nessun album successivo, anche quando ho iniziato a intuire che il ragazzo stava rapidamente cambiando stile e anche la sua musica stava diventando meno immediata e più intimista. Dai primi anni 90 le sue apparizioni sono diventate sempre meno frequenti, fino a che la sua carriera discografica si è totalmente esaurita nel 1992, con mio grandissimo dispiacere. In 19 anni non si è potuto sapere più niente di Nick Kamen tranne il fatto che ora si dedica totalmente alla pittura, suo vero amore, e che ha raggiunto l’incredibile età di 49 anni. A questo punto devo dire di essere sollevata di non avere a disposizione nessuna foto che lo ritragga nel suo aspetto attuale perché credo che molta poesia dei miei ricordi andrebbe in fumo. Gli anni 80 ci hanno regalato tanto da un punto di vista musicale ma se poi si scava a fondo si capisce che molti di coloro che hanno solcato la cresta dell’onda in quel periodo, non hanno retto l’urto col passaggio delle mode. Gli anni 90 non erano più fatti per trentenni con un microfono in mano (che fossero solisti o gruppi) soprattutto se conciati come bambole perfette o con i capelli impomatati, era il decennio del grounge, dell’aspetto vissuto o delle boy band fatte da ventenni. Molti infatti (vedi i Duran Duran) hanno saltato un decennio per riapparire in tutta tranquillità e maturità nei 2000, anni più democratici e con spazio per tutti. Il tempo ha dimostrato che Nick Kamen ha voluto vivere il suo quarto d’ora (durato 7 anni) di successo per poi decidere che la sua strada era un’altra. Rispettabile anche per chi come me l’ha amato ma che se ascolta adesso le sue canzoni non riesce più a provare lo stesso brivido di allora.    

0 Moonraker Operazione Spazio (1979)

Seconda prova di Roger Moore nei panni dell’Agente Segreto 007, stavolta alle prese con un’avventura che lo porterà addirittura nello spazio per evitare che il folle Drax uccida miliardi di persone con uno speciale gas nervino sganciato sul pianeta Terra attraverso delle capsule.

La Bond Girl di turno è la ex fotomodella Lois Chiles, piuttosto algida e poco ispirata nei panni di una scienziata della Cia, impegnata anch’essa nella difficile missione di bloccare i micidiali propositi di Drax. Una particina anche per una giovanissima Corinne Clery che certo non lascia il segno e viene presto (per nostra fortuna) eliminata dalla storia grazie all’intervento dei due dobermann di Drax. Sarò spietata ma penso che le qualità artistiche di questa attrice siano pressoché nulle, poveretta.

Qualche parola su Sir Roger Moore che dà prova stavolta di essere totalmente entrato nello spirito di 007 a differenza del film La Spia che Mi amava dove si era dimostrato piuttosto impacciato e quasi imbarazzato nella parte del tombeur de femme. A questo giro si fa apprezzare per uno stile più dinamico, disinvolto e con una grande prontezza di battuta, elemento importante per chi ha l’oneroso compito di impersonare l’agente segreto più famoso del mondo. Moore si diverte, è palese da ogni scena che lo vede protagonista, dallo spettacolare tuffo nel vuoto senza paracadute, all’inseguimento in gondola in quel di Venezia, alla scazzottata sulla teleferica di Rio, fino all’anomala location della stazione orbitante. Con le donne poi non si risparmia, riuscendo a far cadere tra le sue britanniche braccia ogni singola donna che compare nella storia (tranne la mitica Moneypenny ovviamente).

Bella anche la storia di Squalo, ricomparso per l’occasione dopo lo spettacolare successo del precedente film. L’indimenticabile gigante dai denti di ferro si innamora di una piccola bionda con gli occhiali, trovando così la sua anima gemella e togliendosi di dosso i panni del cattivo di turno, ma anzi mostrando umanità nell’aiutare nelle fasi finali il suo acerrimo nemico James Bond.

Il film merita anche se personalmente ho preferito di gran lunga la prima parte della storia, emozionante e al cardiopalma oltre che girata in bellissime location, così come è tradizione dei film tratti dalla penna di Fleming. La seconda parte è poco credibile e non ben amalgamata col resto del film, presentandosi come una sorta di omaggio a Star Wars o ad altri film di fantascienza del periodo. La fine però si fa ricordare: come al solito James Bond a fine missione decide di concedersi un amplesso con la bella di turno, peccato che le telecamere di mezzo mondo riprendano la scena. Gustoso.

Voto:7      

sabato 9 luglio 2011

0 Le inutili attese

Ieri è stata una giornata tormentata ma illuminante: ho capito che è buona norma non fare affidamento  su chi ti accoglie con un sorriso perché molto spesso capita che nasconda un tagliacarte dietro la schiena.

Mattina d’estate, una colonnina immaginaria sta raggiungendo rapidamente i 40 gradi centigradi sotto un brutale sol leone ed io mi sto dirigendo verso la mia facoltà per discutere con una professoressa alcune questioni concernenti il mio piano di studi e la poca chiarezza della segreteria. Premetto che erano già due settimane che l’appuntamento veniva posticipato per impegni improrogabili della suddetta prof o per disinfestazione locali (inutile domandarsi perché in Italia si compiono certe attività a università aperta ma sorvoliamo). Finalmente, vista la mia assoluta urgenza, riesco a trovare un giorno disponibile ed eccomi lì, più che puntuale, direi maniacalmente puntuale, alle 9 e 30 davanti alla porta dello studio della prof, che naturalmente non c’è. Sarebbe stato paradossale considerato il personaggio in questione.

Arriva dopo un’ora e mi saluta calorosamente. Buon segno dico io. Peccato che faccia entrare prima di me la marea nera composta da un numero imprecisato di miei colleghi che devono farsi registrare il voto. Ok, calma e gesso, aspettiamo non ci vorrà poi tanto no? La pazienza però inizia a venir meno quando vedo che per ogni persona che entra c’è una gran trafila da seguire: saluto, libretto, dito sotto il mento segno di meditazione voto (sarà normale visto che i voti li aveva già assegnati nero su bianco su un agendina?), decisione finale, chiacchiera di contorno, compilazione e via il prossimo. Inutile parlare poi dei numerosi intermezzi rappresentati da telefonate al cellulare, conciliaboli con altri docenti e nuove interminabili ciarle. La cosa è già di per sé seccante, ma non quanto veder comparire alla spicciolata nuovi colleghi per la registrazione voto, che ovviamente hanno la precedenza rispetto alla sottoscritta che poverina è lì da solo 2 ore e mezza. Stremata, a mezzogiorno e mezzo, decido che può bastare ed entro. Tenete conto di un piccolo particolare: non avevo mangiato niente e c’era la stessa temperatura di una fornace. Praticamente l’ingresso per l’Inferno. Mi vede e mi dice con candore: ma sono finiti gli studenti che dovevano registrare i voti? MA STIAMO SCHERZANDO PER CASO? Nemmeno il rispetto e la decenza di chiedere scusa per l’attesa. Da lì in poi è stato poi il trionfo dell’indecenza. Non mi ha risolto niente, anzi mi ha peggiorato le cose, spaventandomi con ipotesi fantascientifiche come per esempio la possibilità, anzi l’obbligo burocratico di dover sostenere esami che mi erano già stati convalidati perché devo pagare il fio di errori commessi dalla solerte segreteria studenti. Questa è l’Italia. Non bastasse questo, la professoressa (sbuffante e con un modo di fare inspiegabilmente arrogante) mi ha pregato di ritornare comodamente (cioè a settembre) con tutta la documentazione necessaria per rifare tutto l’ambaradan. Così, io che ho avuto la malaugurata idea di riscrivermi all’università per prendere una seconda laurea vista l’assoluta assenza di lavoro, devo stare ferma ai box finché non decideranno di farmi sapere che esami devo sostenere e quali no.

Perché ho parlato di gente cordiale con il coltello tra le mani? Perché questa stessa amabile docente è stata quella che mi ha convinto a iscrivermi in Beni Culturali perché avrei finito in un anno e mezzo massimo perché mi avrebbero convalidato tantissimi esami. Tutto falso. Le serviva un iscritto in più per rimpolpare le tasche della nostra benemerita università di Cagliari, tra le ultime e non per caso. La mediocrità la si avverte in tutto: nelle false promesse, negli errori grossolani di chi è pagato per occuparsi di burocrazia, nell’assoluta indisponibilità dei docenti, nella mancanza di rispetto da parte di questi ultimi verso gli studenti. Io intanto ho perso una mattinata per non risolvere niente e devo dire che un po’ me l’aspettavo vista la mia assoluta sfiducia nei confronti degli attuali professori universitari, troppo presi a fare barricate contro le decisioni politiche e poco inclini a curare gli interessi degli studenti.

La fila che ho dovuto subire è stata comunque illuminante per vedere come gli attuali studenti universitari siano più o meno uguali ai frequentatori delle spiagge: ragazze con short inguinali e ragazzi con boxer al ginocchio. Dieci anni fa vedevi ancora i capelloni che si giravano le sigarette nei corridoi o quelli in cravatta e camicia con la 24ore sotto braccio, diciamo che avevano senz’altro più senso di questa gente senza pudore. Il sistema università non ha più senso, me ne accorgo dopo esserci rientrata. Che senso hanno ancora le facoltà umanistiche? Io sono iscritta in Beni Culturali e non c’è quasi nessun esame che abbia una validità pratica, visto che inspiegabilmente hanno persino deciso di eliminare dal piano di studi una disciplina senz’altro fondamentale come Restauro. E’ una vergogna. Questa è la situazione a Cagliari.      

venerdì 8 luglio 2011

0 Le pietre magiche di Shannara–Terry Brooks

Le Pietre Magiche di Shannara è il secondo romanzo della prima trilogia del Ciclo di Shannara. La sua prima edizione risale al lontano 1984, ben sette anni dopo La Spada di Shannara, da tanti considerato a torto o a ragione una pedissequa imitazione del Signore degli Anelli. Nel libro (un classicissimo fantasy) ci troviamo una generazione dopo gli avvenimenti che avevano portato alla distruzione del Signore degli Inganni, ad opera del mezzo sangue Shea Ohmsford grazie all’ausilio della mitica spada appartenente ad un’epoca precedente alla Guerra delle Razze. Stavolta il pericolo incombe sulle Terre dell’Ovest, territorio abitato dagli Elfi e governato dal Re Eventine Elessedil. L’Eterea, un albero millenario piantato nella città elfa di Arborlon per difendere le Quattro Terre dall’assalto dei Demoni, sta morendo e l’unico modo per salvare il popolo elfo dalla distruzione consiste nell’immergere il seme della stessa Eterea nel Fuoco di Sangue che si trova in un misterioso luogo chiamato Cripta. L’unica persona deputata a farlo è la giovane Amberle, una degli Eletti che hanno il compito di proteggere l’albero, ma che da tempo non vive più nella città elfa. Allanon, l’ultimo druido vivente, si mette alla sua ricerca non prima di aver assoldato anche il nipote di Shea, Wil, un giovane guaritore, anch’esso mezzo elfo e perciò in grado di padroneggiare il potere delle Pietre Magiche (oggetti creati proprio dalla magia elfa, una magia ormai dimenticata). Una volta trovata Amberle, i due giovani si mettono in cammino verso occidente alla ricerca del fuoco di sangue, ultima speranza per il popolo elfo, che nel frattempo combatte strenuamente contro le orde di demoni che si dirigono verso Arborlon.

La trama è senz’altro accattivante e ben lontana da qualunque ipotesi di plagio verso altri romanzi fantasy, nonostante ciò presenta lati a mio modo deludenti. Ovviamente risponde bene alle caratteristiche che ci si aspetta da un fantasy, cioè la ricerca di qualcosa e il racconto che segue due percorsi diversi, da una parte Wil e Amberle, dall’altra gli Elfi e la loro strenua lotta contro i demoni. Ma mentre le sezioni dedicate alla ricerca sono fondamentalmente intriganti, ben scritte, scorrevoli e appassionanti (l’affinità sempre crescente tra Wil e Amberle, l’incontro con Eretria, Hebel e Vagabondo, cambio di scenari abbastanza frequente), tutta la parte dedicata alla descrizione della battaglia tra elfi e demoni è quanto di più pesante io abbia letto nel corso degli ultimi 20 anni o giù di lì. Mancano i personaggi carismatici del primo romanzo che tenevano in piedi centinaia di pagine di descrizioni guerresche, manca un’idea veramente originale che giustifichi i numerosi capitoli finalizzati a descrivere la conquista e la perdita dei vari cancelli che portano alla città. Ogni tanto compare Allanon con il suo fuoco azzurro e poco altro. Tutto si presenta molto piatto e mal descritto, con l’intromissione ridicola di Arpie, vampiri, camaleonti e orchi, che muoiono come mosche ma il cui numero si presume infinito.

Un altro grande difetto di questo libro è la mancanza di personaggi veramente memorabili. Tutti molto statici, a parte Eretria, dotata di una verve che tiene in piedi gran parte del libro e che infatti rimane a farci compagnia fino all’ultima, un po’ penosa pagina. Penosa perché le ultime righe non hanno molto senso e perché l’autore ci fa capire che Wil fondamentalmente ritiene Eretria una gran palla al piede, ma che essendo rimasta sola e non essendo propriamente orrenda, tutto sommato se la può portar dietro senza grossi rimpianti. Ho trovato questo libro anche un po’ misogino in effetti, anche se la storia va a buon fine solo grazie alle donne e a un cane, ma poco importa perché tanto il vero eroe deve risultare Wil, l’inutile e tremebondo Wil. Questo è un po’ il difetto di un certo tipo di fantasy vecchia maniera ma si accetta perché tutto sommato ad un romanzo celebre si perdona anche questo.

Sono ovviamente poco incline a soprassedere sull’inutile e reiterata tiritera dell’egoismo di Allanon, del suo sapere le cose in anticipo e non comunicarle ai diretti interessati che in questo modo potrebbero usufruire del libero arbitrio invece che essere convogliati su un treno destinato a schiantarsi. Questo se mi permettete è un po’ ridicolo e ancor peggio pedante, e lo dico da lettrice di tutti i romanzi di Shannara dal Ciclo di Shannara agli Eredi di Shannara. Lo dico perché sarà qualcosa che puntualmente comparirà in ogni libro della saga. Essenzialmente inutile.

Per concludere, il romanzo è un fantasy sui generis e piacerà tanto agli estimatori del genere e a chi vuole vivere un’avventura dal finale inaspettato (un ottimo finale a parte il fatto che avrebbe meritato più pagine per permettere un addio decente tra Wil e Amberle). Per tutti gli altri consiglio un fantasy più leggero e scorrevole. Per molti ma non per tutti.

Voto: 7

giovedì 7 luglio 2011

0 Lilo e Stitch (2002)

Un cartone animato da Oscar (non per niente ha ricevuto una nomination come miglior film di animazione). Ho commesso un reato gravissimo avendo fatto trascorrere la bellezza di 9 anni prima di vedere per la prima volta questa poesia fatta a colori.

Inutile dire che si ride e si piange in egual misura, così come è tipico in tutte le produzioni Disney, imbattibili nel toccare le corde giuste anche nell’essere umano più freddo e glaciale.

Si parla di amicizia stavolta, di amicizia e legami famigliari. Lilo è una piccola abitante dell’isola Kauai dove vive con la sorella Nani, unica sopravvissuta della sua famiglia dopo che i genitori sono periti in un incidente stradale. Lilo soffre di solitudine perché le altre bambine la trovano strana e non vogliono giocare con lei, così sviluppa un carattere un po’ burrascoso ma dolcissimo. Nani decide di cercarle un compagno di giochi nel mondo dei quattrozampe ed è proprio al canile che le due si imbattono in una strana creatura proveniente dallo spazio più remoto, a cui Lilo dà il nome di Stitch. Il piccolo alieno è un vero e proprio terremoto, indomabile e capriccioso, anche lui spinto a comportarsi così come riflesso verso l’odio che gli altri provano per lui e per la grande solitudine data dall’essere l’unico della sua specie, visto che si tratta del risultato di un esperimento di laboratorio. E così tra i bellissimi colori delle Hawaii e la musica di Elvis diventa impossibile non innamorarsi di tutti i personaggi, ma soprattutto di una storia realizzata con grande attenzione verso i messaggi di amore, speranza e solidarietà che fanno di questo film un esempio per la stessa Disney da qualche tempo ai box da questo punto di vista (tranne per quel che riguarda il meraviglioso Up).

E’ un film che si rivolge a tutti, piccoli e grandi. L’amore per il diverso, anzi l’assoluta indifferenza verso la “presunta” diversità dell’altro, ci insegnano i veri valori della vita che troppo spesso finiamo per dimenticare, accecati dall’egoismo e dalla paura.

Ohana significa famiglia e famiglia vuol dire che che nessuno viene abbandonato o dimenticato

mercoledì 6 luglio 2011

0 Scandalo a Filadelfia (1940)

Tracy (Katharine Hepburn) è una ragazza dell’alta società di Filadelfia che sta per convolare a nozze per la seconda volta dopo il suo divorzio dal primo marito Dexter (Cary Grant). Il suo nuovo amore è George, un nuovo ricco venuto da un modesto lavoro di minatore e riuscito a salire i gradini dell’alta società in poco tempo. Dexter decide di guastare le nozze alla ex moglie, di cui è ancora innamorato, invitando al matrimonio il giornalista Connor (James Stewart) e la fotografa Liz, entrambi dipendenti di un giornale scandalistico pronto a immortalare le nozze con foto compromettenti e un articolo al vetriolo. Le cose però andranno in modo diverso…

Il film è considerato una delle pellicole più celebri della commedia americana anni 40, tanto da meritare diverse nomination all’Oscar e una statuetta d’oro per l’impeccabile e giovanissimo James Stewart.

Non ci si può non innamorare di un film che fa sognare, sorridere e rimpiangere un modo di fare cinema che non esiste più. Si sogna ammirando la bella vita della ricca borghesia americana, con fiumi di champagne e bellissime case vittoriane dotate di piscina. Si sorride con dei dialoghi ironici cuciti perfettamente addosso ai tre grandi protagonisti, dialoghi a mio modo di vedere anche piuttosto moderni, capaci insomma di vincere il passare degli anni e risultare ancora piuttosto attuali. La Hepburn, con quel viso così particolare e un modo di recitare da vera fuoriclasse, colpisce per la sua modernità e per il fatto di rappresentare un tipo di donna che sfugge all’etichetta e alle convenzioni sociali. Cary Grant invece mi è parso un po’ sottotono, più un comprimario che uno dei protagonisti principali, privo di quella ironia che è il suo marchio di fabbrica. James Stewart è ovviamente formidabile, con quell’aria da furfante e il fascino da ragazzino.

Un film da rispolverare e guardare comodamente in poltrona in un pomeriggio d’estate.

Voto: 7,5 

sabato 2 luglio 2011

0 Notte brava a Las Vegas (2008)

Joy (Cameron Diaz) viene scaricata dal suo fidanzato proprio durante la festa a sorpresa che aveva organizzato per lui. Jack (Ashton Kutcher) è stato appena licenziato da suo padre. Entrambi decidono di dimenticare i loro guai andando a Las Vegas e casualmente si trovano nello stesso albergo. Si conoscono in circostanze fuori dal comune (gli viene erroneamente assegnata la stessa camera) e trascorrono una pazza notte insieme tra fiumi di alcol e giocate al casinò. La mattina Joy si sveglia con un anello al dito e capisce che nella notte lei e Jack si sono sposati. Durante la colazione i due decidono di separarsi quanto prima e si lasciano in modo burrascoso davanti ad una slot machine dove Jack inserisce distrattamente una monetina datagli poco prima da Joy. Del tutto inaspettatamente si aggiudica il Jackpot di 3 milioni di dollari ma Joy reclama la metà del montepremi visto che la monetina era sua. Entrambi finiscono davanti al giudice che li costringe a vivere come marito e moglie per 6 mesi congelando il denaro fino a quando i due non compariranno di nuovo in aula con meno astio di prima. Inizia così una difficile convivenza…

Il film è bellissimo, una commedia dove tutto gira a meraviglia e dove si ride per buona parte della storia. Cameron Diaz che solitamente non amo particolarmente dimostra una verve eccezionale e ben si incastra con Ashton Kutcher, eterno ragazzino con la faccia da malandrino. Si vede che i due sono entrambi mattatori della commedia made in USA, infatti danno vita ad una moderna guerra dei Roses senza armi non convenzionali. Niente tentativi di omicidio ma solo dispetti che potrebbero far saltare i nervi a chiunque.

Si avverte una certa inflazione del tema “folli notti a Las Vegas”, ma tutto è estremamente funzionale alla trama e quindi si perdona questo continuo leit motiv dei matrimoni celebrati durante amnesie provocate da alcol.

Se volete divertirvi questo film è assolutamente consigliato.

Voto: 7,5 

venerdì 1 luglio 2011

1 Noi due senza domani (1973)

Il film racconta una storia d’amore e passione al tempo della guerra. Siamo precisamente nel 1940. Seconda guerra mondiale. Coloro che vivono sul confine belga sono costretti a scappare per sfuggire ai tedeschi che stanno dilagando ovunque in Europa.

Tra i fuggiaschi c’è Julien (Jean Louis Trintignant), sua figlia e sua moglie, che è prossima al parto. I tre si dirigono alla stazione dove prenderanno un treno che li porterà in salvo. Mentre moglie e figlia vengono sistemate nei primi scompartimenti, Julien è costretto a salire sugli ultimi vagoni. Qui conosce persone di varia umanità: un anziano che ha fatto la prima guerra mondiale, una prostituta, una ragazza madre violentata dai tedeschi, un disertore e infine la bellissima Anna (Romy Schneider).

Inizialmente Julien è preoccupato per la moglie e ad ogni fermata del treno si precipita a vedere come stia, ma ben presto la sua attenzione è totalmente occupata da Anna, con la quale inizia una relazione fatta prima solo di sguardi e poi di sesso, unito comunque ad un grande feeling. Lei gli rivela di essere una tedesca di confessione ebrea ed è perciò che è scappata, per sfuggire ai campi di concentramento, dove sono già morti suo marito e i suoi genitori. Il viaggio in treno continua tra immagini di repertorio legate al conflitto mondiale e le bombe che continuano ad ostacolare il viaggio verso ovest. Alla fine però il treno arriva a La Rochelle e Julien, a malincuore, si reca all’ospedale a trovare sua moglie, che nel frattempo ha dato alla luce un bambino. Anna capisce che il loro amore non può andare avanti e decide di andar via.

Il tempo passa. Julien viene contattato dalla polizia tedesca per la sua presunta conoscenza con Anna. All’inizio lui nega ma quando fanno entrare la donna nella stanza, l’amore per lei prevale su tutto, anche sul suo destino ormai segnato…

Il film è bellissimo sotto ogni punto di vista: fotografia, colonna sonora, recitazione ai massimi livelli. Abbiamo un uomo che non sa se ama ancora la moglie, non se l’è mai chiesto perché quella è la sua realtà quotidiana, ma basta l’arrivo di una bella donna misteriosa e allo stesso tempo affascinante per scombussolargli l’animo e fargli quasi decidere di abbandonare moglie e figlia per vivere l’amore vero.

Imperdibile.

Voto: 8    

 

La finestra sul cortile Copyright © 2011 - |- Template created by O Pregador - |- Powered by Blogger Templates