lunedì 30 aprile 2012

0 Gli anni in tasca (1975)

Truffaut crea un mondo a misura di bambini e preadolescenti probabilmente attingendo dai suoi ricordi di infanzia e il risultato è un film che intenerisce e suscita nostalgia.

Non c’è un unico protagonista, ma tanti, sia piccoli che adulti, tutti comunque con qualcosa che li lega. Abbastanza facile in un paesino che conta poche anime e dove la domenica ci si ritrova tutti al cinema ad assistere a film e cinegiornali. Ecco, possiamo dire che il regista con grande capacità e semplicità ricrea le atmosfere e le vicende tipiche della vita di provincia riuscendo a tratteggiare un mondo variegato dove gli adulti sembrano tutti distratti e poco attenti ai propri figli mentre i bambini si presentano pieni di inventiva, curiosità e sentimenti.

Ho trovato molto angosciante la sequenza in cui il piccolo Gregorie cade dalla finestra del nono piano. L’ansia mi ha chiuso la gola e giuro non riuscivo a credere a quello che stavo vedendo. Abbastanza assurdo che ne sia uscito illeso ma vabbè del resto meglio così per tutti noi. In ogni caso la scelta non è stata casuale ma ha voluto mettere in evidenza come spesso i genitori siano talmente presi dalle loro ansie di adulti da non rendersi conto di mettere a repentaglio la vita dei propri figli. Del resto anche la sequenza in cui i due genitori lasciano la bimba a casa per andare in ristorante è proprio emblematica di un’epoca. Ora se qualcuno lascia il figlio in macchina anche solo per un minuto rischia di non vederlo più o di vederlo dietro le sbarre di una prigione. Forse si era più rilassati o forse più incoscienti, fatto sta che la gran parte di noi degli anni 70 è ancora in vita perciò tanto male non c’è andata.

Molto spazio è poi dedicato alle prime pulsioni sessuali e ai primi approcci sentimentali tra maschi e femmine, vedi per esempio le pomiciate al cinema o l’ultima scena in cui il ragazzino timido riesce finalmente a dare il suo primo bacio ad una coetanea, mettendo da parte per sempre il surreale (ma abbastanza frequente) amore per la bella madre del suo compagno di classe. I film francesi hanno il merito, ora come allora, di descrivere l’amore fisico e platonico in un modo schietto, trasparente e per niente fastidioso o volgare, elemento non da poco in una pellicola che si rivolge in particolar modo ad un pubblico giovane ma che strizza l’occhio anche ai loro genitori.

Non manca neppure l’elemento sociologico, rappresentato dal ragazzino disadattato che va a scuola sempre con gli stessi abiti laceri e con la cartella distrutta mentre i suoi compagni non fanno che parlare di paghette mensili, gelati, giocattoli e quant’altro. Nel film ti viene da detestarlo, un po’ come succedeva alle medie quando ti trovavi in classe il bullo con problemi familiari e infatti i suoi compagni non lo coinvolgono, lo temono, lo vedono troppo adulto e perciò estraneo al loro mondo edulcorato e viziato. Niente di strano sotto il sole, il diverso viene sempre emarginato in particolar modo in quell’età così difficile come la pubertà che finisce per segnare irrimediabilmente la vita adulta. Tutto questo non è denunciato ma solo mostrato e infine teorizzato con la bellissima chiusa finale del maestro che spiega ad un pubblico che non ha ancora gli strumenti per capirlo, come sia difficile il mondo dei bambini, soprattutto di quelli disadattati e senza l’amore dei propri genitori (“i figli bisogna amarli o finiranno per rivolgere il proprio affetto a qualcuno esterno alla famiglia escludendo per sempre i propri genitori”).

Tirando le somme, ci troviamo davanti ad un bel film che merita di essere visto anche con il suo aspetto decisamente retrò. Perfetto per un pubblico over 30, ridicolo per tutti gli altri.

VOTO 7,5  

domenica 29 aprile 2012

0 I senza vergogna: Belen e Stefano

Dal titolo del post si arguisce quale sia il mio pensiero sull’annosa questione che sta attanagliando milioni di italiani imbastarditi dalla tivù e incattiviti dal trattamento Monti, che almeno ha sortito l’effetto di far nascere un senso atavico di giustizia in ciascuno di noi. Beh dai, riconosciamolo, l’incidentuccolo dell’altro giorno ha suscitato in molta gente (compresa la sottoscritta) un sano gusto di perversa ma sacrosanta libidine. Che diamine! A parte che la dinamica del tamponamento è tutta da ridere: lui guida la moto come un idiota visto che andando a 20 km/h su un rettilineo è riuscito ad andare contro un furgone. Le foto con i due tutti incerottati non suscitano la solidarietà che la De Filippi ha richiesto con una certa severità durante il serale di Amici, in un siparietto in cui l’unica cosa notevole sono stati i numerosi fischi.

I due rappresentano la categoria umana del “me ne fotto”. Lui che in fondo in fondo ha fatto finta di provare un sentimento per Emma Marrone unicamente per tenersi stretta la possibilità di far parte del cast di ballerini professionisti di Amici, lei che ha ingannato tutti i boccaloni di Italia con l’immagine fasulla della brava ragazza. Mi fanno schifo entrambi. Lui mi fa pure pena perché sembra davvero convinto di aver trovato l’America: 22 anni, intelligenza sotto la media, ecco che si ritrova con una donna di successo che gli fa scoprire i ristoranti, la bella vita, il gossip. Normale perdere la testa e il controllo sul proprio testosterone. E poi, vuoi mettere la donna donna con la donna androgina? Praticamente sta vivendo su una giostra che rimane aperta e attiva 24 ore su 24. Non credo che i fischi gli cambino la vita, in fondo è un semplice ballerino di fila. E’ lei che sta sulla graticola, ma è talmente in malafede che non riesce proprio a rinunciare di farsi vedere abbarbicata a lui, nonostante sia ormai chiaro in tutto l’universo che la sua carriera stia scricchiolando in modo sempre più preoccupante. Lei è lì, con quelle sopracciglia all’ingiù e le tette finte, con la coscia e il culo bene in mostra a farsi proteggere dalla Sanguinaria mentre la gente la spettina con i fischi. Lei che ha rilasciato tante interviste in cui dichiarava un amore sconfinato per Corona e un immenso dolore per un aborto spontaneo a cui la sottoscritta non ha mai creduto. Lei che è conosciuta più per le corna di cui omaggia la gente che per veri meriti. A Sanremo ha fatto sparire prima la Canalis, con l’aiuto di un sorriso tipo paresi, e poi la poveraccia di quest’anno con la storia volgarissima della farfallina che indubbiamente ha fatto precipitare le sue quotazioni agli occhi di molte ammiratrici. Sembra non capire niente di come funziona lo show business, è guidata solo dal suo istinto di donna bassa e volgare. La De Filippi l’ha premiata prima con IGT e poi facendola partecipare ad Amici nel ruolo di ballerina di coreografie da meretrice. Nessuno aveva apprezzato la scelta e dopo quest’ultima gossippata penso che non ci sia molta gente che trattiene uno sputo davanti allo schermo il sabato sera.

Sarà pure solidarietà nei confronti di una Emma che poveraccia si è ripresa una prima volta il fedifrago per poi vederlo nuovamente prendere il largo con un’altra donna, sarà quel che sarà ma a me proprio non va giù l’esistenza televisiva di quei due abomini. Ma ve lo immaginate voi donne cosa significhi dover sopportare nell’ambiente di lavoro le pomiciate tra il vostro ex e una bambola gonfiabile? Che poi non era ancora ex. Cornuta e mazziata. Non prendiamoci in giro: è proprio una vaccata ed ecco perché un moto d’orgoglio è sopraggiunto all’ascolto della sacrosanta Bella senz’anima di sabato scorso. Qualcuno nei forum sostiene che i due subumani abbiano il diritto di viversi la propria storia come gli va e a me questa gente fa un po’ schifo, sono i qualunquisti dell’ultim’ora, quelli che evidentemente giudicano un tradimento come un atto democratico e liberatorio e non come una delle peggiori azioni compiute dall’essere umano.

Mi auguro tanto che Belen sia prima o poi radiata dai nostri teleschermi e dalle copertine di settimanali come Vanity Fair. Non merita più neanche un cenno velato. Se vogliamo parlare di immondezza soffermiamoci su quella di Napoli, che almeno facciamo qualcosa di socialmente utile.     

0 Piccole bugie tra amici (2010)

Il cinema è iniziato in Francia alla fine del XIX secolo e in un modo o nell’altro questo Paese è sempre stato in grado di dare quel qualcosa in più rispetto alle altre cinematografie mondiali, che so, una nuova strada da battere o un nuovo modo di raccontare attraverso il mezzo filmico, ma è soprattutto negli ultimissimi anni che i registi francesi stanno distanziando di molte misure sia gli americani (imbattibili per lunghi anni) che gli italiani (indecenti oltre ogni possibile immaginazione). Il cinema francese crea infatti commedie che inanellano successi al botteghino e si fanno ricordare per le emozioni vibranti che sanno suscitare nello spettatore, mai preso in giro con finali facili o trame stupide (marchio di fabbrica infamante del nostro cinema italiota).

Les petits mouchoirs è un esempio perfetto di come dovrebbero essere realizzati i film. Il regista, Guillaume Canet, opera il miracolo di confezionare un film di ben 154 minuti che tiene viva l’attenzione del pubblico dall’inizio alla fine. Il tema è quello dell’amicizia e dell’egoismo umano. I protagonisti sono un gruppo di amici parigini (chi single chi sposato con prole) che vive una tragedia proprio all’inizio delle ferie estive: Ludo, un ragazzo dell’allegra brigata, viene coinvolto in un incidente stradale che lo riduce praticamente in poltiglia. I suoi amici, in un primo momento traumatizzati e con gli occhi lucidi, decidono comunque di non rinunciare alle loro tradizionali vacanze al mare e così, lasciando il moribondo in balia del suo destino (“in fondo Ludo non scappa mica”) partono tutti insieme per la solita meta, carichi di buonumore e musica a palla. Tutto sembra bellissimo ma in realtà sono tanti i problemi celati dietro i sorrisi di circostanza, le piccole bugie del titolo: Vincent si è innamorato di Max, sua moglie compensa con i porno su pc vista la latitanza del marito, Max è pieno di soldi ma tirchio da far paura, Marie passa da un uomo all’altro fino a rendersi conto di essere rimasta incinta. Insomma chi più chi meno ha il suo piccolo dramma personale che però viene celato a tutti per evitare di riconoscere le proprie debolezze. Nessuno di loro è cattivo, ma tutti sono profondamente egoisti e questa piccola rivelazione gli viene fatta proprio sul finale da chi non appartiene al loro gruppo ma che dall’esterno li conosce meglio di quanto loro conoscano se stessi. E così ecco sopraggiungere il dramma finale…

Nella prima parte del film ci si diverte in modo spettacolare con battute e situazioni spiritose, adatte a far conoscere meglio i protagonisti, tutti perfetti e particolarmente azzeccati (impossibile fare nomi visto che tutti ma proprio tutti svolgono il loro compito in maniera sublime). Tutti si ritrovano nella villa di Max, tra bottiglie di vino, ostriche, champagne e gite in barca ma anche tra sortite al vicino market per fare mastodontiche spese. Per contribuire a questa sensazione di familiarità con il posto e tra di loro, gli attori hanno vissuto qualche giorno proprio nella villa delle riprese poco prima del primo ciak. Soluzione perfetta e realistica. Assistiamo ad una classica vacanza tra amici di lunga data ed è impossibile non farsi coinvolgere dalle piccole grandi storie che si intrecciano lungo le due settimane di permanenza al mare.

Nella seconda parte invece si vira verso la consapevolezza e il dolore, concretizzatesi nella notizia della morte solitaria di Ludo. Tutti a quel punto prendono coscienza del loro egoismo e si ritrovano al funerale dell’uomo con le loro frasi di addio che suonano come una campana a morto sulle spensierate giornate che non torneranno più o che prima o poi lo faranno ma con qualcosa di irrimediabilmente diverso.

Quanta poesia in questo capolavoro: ogni gesto, ogni frase, ogni sguardo non è lasciato al caso, perché tutto è funzionale al racconto dove del resto non c’è spazio né per la volgarità né tantomeno per i luoghi comuni, tanto presenti nei prodotti made in Usa che ormai puzzano di vecchio e stantio. I francesi stanno conquistando il mondo con attori (Cluzet e Cotillard per citarne solo due) e storie che sfidano la crisi del cinema con armi validissime ed efficaci. Preparate i fazzoletti!

VOTO 10 

 

giovedì 19 aprile 2012

0 L’aria salata (2006)

Fabio (Giorgio Pasotti) lavora in carcere come educatore, un giorno gli viene affidato un uomo che sta scontando 30 anni di carcere per omicidio, Sparti (Giorgio Colangeli) che si scoprirà essere suo padre. Per il ragazzo inizia così un periodo fatto di prese di coscienza, rancore e affetto per un uomo che non ha mai conosciuto e che perderà molto presto in modo tragico ed inatteso.

Angelini firma (regia/sceneggiatura) un’opera altalenante tra il capolavoro e il convenzionale. La trama non è così originale ma il modo di costruire l’intreccio porta lo spettatore a stare incollato alla poltrona in attesa di seguire lo sviluppo della vicenda, curioso di sapere se il rapporto mancato tra il padre e il figlio potrà avere un futuro o se il rancore prevarrà fino ad ammazzare qualunque speranza di riconciliazione. Fabio è molto simile al proprio padre, così testardo nel rifiutare qualunque aiuto, convinto che l’individuo debba far da solo nella vita, diffidente come un gatto e restio a manifestare vero affetto per chi lo ama. Fabio è un educatore che sceglie di lavorare in carcere come espiazione per avere un padre assassino o forse proprio con la tacita speranza di poterlo incontrare, ma quando ciò accade non è pronto ed esplode. Questa “esplosione” viene messa in scena con una recitazione fin troppo carica da parte di Pasotti (forse poco a suo agio sul grande schermo) e questo, unito ad una certa banalità nei dialoghi, rende la pellicola un lavoro imperfetto. E’ tutto un dipanarsi di luoghi comuni (le guardie carcerarie violente, i compagni di cella minacciosi, il padre della fidanzata disposto a pagare per affidare a Fabio un lavoro più rispettabile) che appesantisce il film. In realtà non è neanche chiarissimo il modo in cui i legami familiari degli Sparti si incrinino fino a spezzarsi definitivamente.

L’apporto più grande lo dà l’eccellente Colangeli, con una recitazione asciutta ma convincente, poche parole ma profonde. Una attore capace di recitare in modo magistrale il ruolo del carcerato che ha trascorso gli ultimi 20 anni a guardare il mondo dietro le sbarre ma che mostra una profondità d’animo pazzesca, Sparti infatti ha un modo di concepire il mondo più realista del figlio bamboccione e glielo insegna in un solo giorno, andandosene via in modo spettacolare ma anche molto dignitoso.

In conclusione il film non è male, racconta in un breve lasso di tempo il ricongiungimento tardivo tra un padre e un figlio soffermandosi sulla vita carceraria in modo un po’ convenzionale. Guardabile ma tutto sommato dimenticabile.

VOTO 6

sabato 14 aprile 2012

0 Ammesso (2006)

Ammesso (Accepted in lingua originale) è una classicissima commedia americana con al centro un gruppo di diplomati che decide di aprire un college fasullo dopo essere stati scartati da tutti gli istituti esistenti. Se all’inizio lo scopo è quello di imbrogliare i propri genitori, ben presto però lo scherzo prende una direzione inaspettata assumendo le proporzioni di una piccola palla di neve che diventa una vera valanga. Gli iscritti crescono di numero diventando più di 300 e a quel punto si impone una sorta di istituzionalizzazione del college ex manicomio. Ecco allora che ogni studente ha la possibilità di dare libero sfogo alle proprie passioni come la cucina, l’intaglio o la fotografia, acquisendo perciò il doppio ruolo di studente/docente. Chiaramente la truffa viene presto notata mandando a carte quarantotto un progetto in via di sviluppo.

Il film, come era logico aspettarsi, è il trionfo delle banalità che tanto piacciono agli americani. Abbiamo il classico perdente che ha trascorso gli ultimi quattro anni di scuola a imbrogliare le carte e a vivere di sei politici. Il fatto di essere rifiutato da tutti gli istituti del globo non lo preoccupa per niente perché sa di poter girare la situazione a suo favore e infatti così accade, attraverso delle soluzioni oggettivamente impossibili ma facilmente realizzabili davanti ad una macchina da presa. Il succo del film è che nella vita la creatività e il sapersela scafare contano più dei titoli e ciò in qualche modo si confà abbastanza bene con la mentalità americana secondo la quale chiunque può aspirare a diventare presidente degli stati uniti. Tutto è abbastanza evidente nel finale quando il famoso perdente (ormai diventato eroe e fidanzato della ragazza più carina) viene bonariamente premiato da una commissione di inchiesta che gli riconosce il merito di aver creato un’istituzione con tutte le carte in regola per continuare il suo lavoro.

Tutto questo sa immediatamente di già visto ma è lecito pensare che in America queste commedie diano ancora filo da torcere a prodotti più originali e meno dozzinali. Il target al quale si rivolge è ovviamente quello under 20, per tutti gli altri è solo una perdita di tempo tra feste alcoliche, prove di iniziazione della confraternita di turno, fuori di testa che hanno una loro genialità nascosta e amori che sbocciano tra il brutto e la bella.

VOTO 5,5

martedì 10 aprile 2012

0 Un amore splendido (1957)

Cary Grant e Deborah Kerr sono i due protagonisti di questo drammone sentimentale ricco di colori accesi e grondante di buoni sentimenti. Siamo davanti ad uno dei grandi classici del cinema hollywoodiano, sempre pronto a mettere in scena storie d’amore intense ma tormentate, costellate di ostacoli che non facilitano il lieto fine.

Nicky è un artista squattrinato che si fa mantenere dalla fidanzata di turno mentre Terry è una donna intelligente, affascinante ma impegnata. Lui si innamora di lei e lei ricambia dopo un principio di scarsa resistenza. I due si conoscono e vivono l’inizio della loro storia su una nave da crociera. All’arrivo i due decidono di darsi appuntamento da lì a sei mesi in cima all’Empire State Building. In quel tempo in cui saranno separati Nicky si guadagnerà da vivere per mettere da parte i soldi per sposare Terry e lei lo aspetterà mettendo nel frattempo alla porta il suo ex fidanzato. Ma il destino ahimè è in agguato e proprio mentre la donna si sta recando all’appuntamento, una macchina la investe rendendola invalida. Lei decide di non rivelare niente a Nicky che nel frattempo cade in una vera e propria depressione dove le donne non esistono più e dove rimane solo l’immagine dell’unica donna che lui abbia veramente amato, un’immagine impressa in un quadro dipinto dallo stesso Nicky. Il tempo passa, dopo un anno i due si rincontrano casualmente e ovviamente un caso fortuito metterà le cose apposto fino al lacrimosissimo lieto fine.

Io amo molto il cinema classico americano, quelle atmosfere così sapientemente coinvolgenti, con storie ben costruite e una recitazione da urlo, merito delle grandi star del periodo. In questo caso però sono rimasta abbastanza delusa, in quanto il ritmo è decisamente lentissimo e persino i due grandi attori protagonisti sembrano in una fase di stanca, più due vecchi innamorati che due persone nel pieno dei loro anni e della loro maturità sessuale. Non che il sesso sia una componente importante in questo periodo cinematografico così edulcorato, ma ciò che intendo dire è che manca il pathos, l’emozione, i tempi giusti e dei buoni dialoghi. Tutto è teatrale e buonista, poco credibile e tanto noioso.

VOTO 5,5

martedì 3 aprile 2012

0 L’acchiappasogni–Stephen King(2001)

L’Acchiappasogni è un romanzo prima che un mediocre film ma in realtà non lo si può definire neppure un libro eccezionale, ma solo più che sufficiente. La sensazione forte è che King volesse in qualche modo utilizzare nuovamente una trama con al centro degli amici diventati tali durante la pubertà, così come aveva fatto in modo magistrale con l’insuperato e insuperabile IT. Il tentativo però va a vuoto. Non c’è profondità né spessore, il tutto gira solo intorno alla vicenda centrale che riguarda un ridicolo attacco alieno nel Maine, linfa vitale per l’action movie che ne è scaturito fuori qualche anno dopo. Partiamo comunque dall’inizio: abbiamo quattro amici Pete (venditore d’auto alcolizzato), Jonesy (professore universitario), Beaver (sfaccendato e tormentatore di stuzzicadenti) e infine Henry (psichiatra con tendenze suicide). Questi, come ogni autunno, trascorrono qualche giorno all’Hole in the wall, la baita appartenente da sempre alla famiglia di Beaver, per dedicarsi alla caccia ma soprattutto per suggellare la loro amicizia pluriennale. Non sanno però che la loro vita sta per cambiare per sempre, infatti proprio in concomitanza con il loro soggiorno avviene un attacco alieno rappresentato da una muffa rossastra chiamata byrus e da orrende donnole che si impiantano negli ospiti terrestri facendoli scoreggiare fino al parto finale. Jonesy porta inconsapevolmente uno di questi infettati nella baita provocando così la morte di Beav e la sua trasformazione in Mr Gray, un alieno che ha il progetto di sterminare la razza umana facendo precipitare in un pozzo idrico una delle donnole zannute. Nel frattempo muore in circostanza analoghe a quelle di Beav anche Pete, mentre Henry viene contagiato solo in maniere superficiale. Proprio quest’ultimo intuisce i progetti di Jonesy/Gray e riesce a convincere un soldato americano, Owen (tra quelli presenti nella zona infettata) a mettersi insieme all’inseguimento dell’alieno e diventare così degli eroi. Però per riuscire nell’impresa le loro capacità di semplici esseri umani non è sufficiente, c’è bisogno di un deus ex machina, ossia Duddits, un ragazzo (ormai uomo come tutti loro) con la sindrome di down che per tutta l’adolescenza era stato amico dei quattro ma che per ragioni ignote è stato lasciato al suo destino mentre gli altri continuavano a frequentarsi. Duds è l’acchiappasogni, colui che scaccia il male e tiene uniti gli amici, quello che “vede la riga”, ossia rintraccia tutto ciò che si è perso ma non solo. A questo punto si prospetta un duello finale tra razza umana e razza aliena ma in realtà il finale sembra quasi dirci che è stata tutta un’illusione perché in realtà Jonesy era solo Jonesy e il byrus un’innocua muffa extraterrestre incapace di sopravvivere al freddo.

Questo finale così poco fantascientifico non ci dispiace tutto sommato perché in realtà chi legge King non va alla ricerca di avventure intergalattiche ma in ogni caso fa pensare che l’intenzione dell’autore (in piena convalescenza dopo il brutto incidente accadutogli tempo fa) fosse in sostanza quella di parlare di amicizia e di proporre ancora una volta una città che tutti ricordiamo, Derry, teatro degli eventi terribili riguardanti It (vi sono infatti vari accenni a ciò che accadde a quegli altri amici del gruppo dei perdenti). Io ho letto parecchia amarezza in questo libro soprattutto sulla tematica degli amici che arrivati alla soglia della vita adulta si dimenticano del punto più debole della catena, dell’amico che resterà per sempre bambino mentre loro si formeranno una famiglia o semplicemente diventeranno uomini. Duddits non li ha uniti perché in realtà quando lo hanno conosciuto già si frequentavano, ma è stato capace di dare un po’ dei suoi poteri a tutti loro e soprattutto di renderli meno cinici rispetto a quelli che per loro erano solo dei “rinco”. Nonostante ciò, le loro vite sono molto diverse da quella di Duddits, in quanto i 4 già da anni vanno all’Hole che rappresenta un po’ un rito di passaggio dall’adolescenza all’età adulta, e l’unica cosa che si limitano a fare è passare qualche pomeriggio a casa dell’amico per giocare a carte mentre Duddits segna in modo sbagliato i punti facendoli divertire tutti. Non c’è niente più di questo, tanto è vero che con il diploma tutti loro prendono la loro strada finendo per ricordarsi di Duddits solamente in occasione delle feste con l’invio di una cartolina di auguri e soprattutto nel momento del pericolo, in modo piuttosto egoistico. Duddits però non si è dimenticato di loro in quanto a tutti ha lasciato un po’ dei suoi poteri speciali che però in realtà hanno solo accresciuto l’infelicità di alcuni di loro: Pete all’inizio del libro aiuta una ragazza carina a ritrovare le chiavi ma lo fa in uno strano modo che la fa fuggire a gambe levate e così si ritrova per l’ennesima volta solo davanti a troppi drinks, Henry legge la verità nella mente di uno dei suoi pazienti e in un momento di nervoso decide di spiattellare la verità in faccia al paziente che non vuole accettarla con il risultato che questi poco dopo muore e lui inizia a meditare il suicidio. Nel frattempo invece Duddits si è ammalato di leucemia e ha come unica compagna sua madre Roberta, gli altri non lo sanno perché ormai non telefonano e non si fanno più vivi ma lo scoprono alla fine. Tuttavia per loro è un fatto secondario rispetto alla missione di sconfiggere gli alieni e così lo succhiano come un limone perché hanno bisogno per l’ultima volta della fottutissima riga.

Non è un romanzo positivo ma solo una presa di coscienza sull’essere umano che cresce, dimentica e cambia e che riesce a sconfiggere il male solo quando riacquista quell’innocenza e quella purezza che aveva in quell’età meravigliosa e brevissima che sta tra l’infanzia e l’adolescenza. Questo è un tema che ricorre nei romanzi di Stephen King, in particolar modo in It, vera miniera per questo romanzo con poca ossatura e poca chiarezza. Infatti della strana morte di Grenedau non sappiamo niente ma possiamo immaginarci che Duddits abbia voluto realizzare uno dei loro sogni segreti o che si sia semplicemente vendicato nutrendosi del suo odio e di quello dei suoi nuovi amici. Inoltre non mi è chiara la fine un po’ ignominiosa dei due dei quattro e la sopravvivenza di quelli che a mio modo di vedere sono molto vicini alla personalità del loro autore. Mania di protagonismo o vittoria dei cervelli sugli ignoranti? Non si sa. In realtà non colpisce nessun personaggio, o almeno io li ho trovati tutti tagliati con l’accetta e con poche sfumature. Forse la parte più interessante è quella di critica verso l’esercito americano ma è davvero troppo poco per annoverare il romanzo tra quelli migliori del grande King.

VOTO 7   

 

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