domenica 30 settembre 2012

0 Sushi Tao–Cagliari

Spinta dai pareri addirittura entusiastici di parenti e recensori di Tripadvisor decido (dopo più di un anno dalla sua apertura) di recarmi in compagnia di un’amica al celeberrimo Sushi Tao di via Sonnino a Cagliari. Premetto che la decisione è sorta spontanea anche dopo la magnifica esperienza vissuta nel vicino MiAsian di proprietà dei medesimi gestori del ristorante giapponese di cui sopra. Mai scelta fu più sbagliata!

Era sabato, minacciava pioggia e il mio stomaco brontolava da più di un’ora ma come un vero sergente della forchetta avevo deciso di rinunciare ad un piccolo aperitivo apripista prima del gran ballo delle 20.30. Volevo davvero gustarmi la fantastica cena giapponese al fantomatico ristorante più caro e blasonato della città. Alle otto e mezza di quella sera afosa varchiamo la soglia del locale e veniamo accolte da freddi sguardi a mandorla che ci chiedono con fare piuttosto sbrigativo se avessimo prenotato. Risposta: no. Attesa e dopo 5 minuti veniamo accompagnate senza particolare garbo verso il tavolo che già di per se stesso non era decisamente granché (come tutti gli altri del resto): distanza eccessiva tra i commensali e vicinanza a limite del sopportabile tra i tavoli posti a destra e sinistra del nostro. Ma vabbè andiamo avanti. I menu erano già sul tavolo. Dopo un breve conciliabolo decidiamo cosa ordinare (1 di polpette di gambero in salsa di prugne, 1 barca Lovely, 1 di udon, 1 di spaghetti thai, 1 bottiglia d’acqua e 1 prosecco Valdobbiadene). Le ordinazioni vengono prese da due camerieri diversi, entrambi comunque fastidiosamente gelidi e poco esperti di savoir fare. Arrivano le bevande portate da un’altra cameriera che si mette letteralmente la bottiglia tra le gambe per poterla stappare dopo di che versa a mo di birra il vino che si rivelerà essere un parente stretto del Ladas o del peggior Maschio. 14 euro buttati al cesso visto che era acido, penoso e da discount. Il vino viene versato senza grazia e riempiendo quasi fino all’orlo i bicchieri. Arrivano le polpette: 6 con una ciotolina di salsa. Le abbiamo trovate buone anche se abbastanza unte, in ogni casi si riveleranno essere la cosa migliore della serata e vorrei vedere visto il non modico prezzo di 6,50 euro. Poco dopo arriva la barca che poveretta era più simile ad una canoa o ad un guscio di noce: il suo contenuto era veramente esiguo e poco vario. C’erano solo nigiri e qualche maki, entrambi di bassa qualità e per giunta del tutto insapori. Guardando nei tavoli vicini ho visto barche di dimensioni maggiori ma il contenuto era il medesimo e mi sembra francamente assurdo visto che quella presa da noi costava ben 24 euro e non aveva veramente niente di tutto ciò che solitamente trovi in un portata del genere in qualsiasi ristorante giapponese. In altri locali meno blasonati ho potuto gustare vari tipi di sushi e sashimi a prezzo decisamente inferiore ma di qualità assolutamente superiore e tutti comodamente adagiati su una barca delle stesse dimensioni. Altra pecca allucinante la mancanza di una ciotolina con la soia che però è arrivata puntualmente agli altri tavoli. Insieme al sushi sono arrivati anche i primi, sempre deposti sul tavolo con noncuranza e senza un sorriso. Qui arriva il bello: gli spaghetti thai erano anche passabili se si soprassedeva sulla loro untuosità che li rendeva del tutto simili a qualunque piatto di pasta ordinato in un semplice ristorante cinese. Gli udon invece erano terribili, annegati in una salsa dal sapore orrendo dove nuotavano liberamente, impreziositi da cozze e arselle chiuse. Un disastro! Ma per non farci mancare niente e darci il colpo di grazia in un vero e proprio harakiri funzionale però alla decisione definitiva di non tornare mai più, ordiniamo il dolce. Abbiamo dovuto fare memoria locale perché i menu ci sono stati negati così abbiamo ordinato due crepes al gelato di riso che al MiAsian ci avevano fatto letteralmente impazzire. Ecco diciamo che la reazione non è stata la stessa: crepes fredda e dura e gelato dentro sciolto. Finito questo sabato autolesionistico abbiamo preso baracca e burattini e siamo andate alla cassa dove abbiamo scoperto che tanta grazia, delizia, abbondanza e educazione aveva il valore di 80 euro e rotti. Però!

Conclusione: io non so chi possa veramente ritenere questo locale il migliore di Cagliari in materia di gastronomia giapponese ma vedendo l’abbondante clientela in giacca, cravatta, colletto alzato ho capito che come sempre avviene in questa città l’elemento su cui ruota un giudizio non è la bontà del cibo ma la cosiddetta location e il tipo di clientela che frequenta un determinato locale. Io ho trovato il locale tutto sommato abbastanza anonimo a differenza del vicino MiAsian che si presenta spettacolare da ogni punto di vista. Inoltre l’acustica lascia a desiderare visto che ad un certo punto avevo difficoltà a sentire cosa diceva la mia amica visto il fastidiosissimo brusio dei tavoli vicini e lontani. Insomma un casino in pieno stile che non ho alcun desiderio di riprovare vista che ormai il sushi lo cucinano davvero ovunque e a prezzi più modici.

 

mercoledì 26 settembre 2012

0 The illusionist (2006)–Neil Burger

Il sottotitolo presente nella locandina (“niente è come sembra”) è in effetti molto utile ripensando allo straordinario finale del film. Ammetto spudoratamente di essere stata del tutto sviata dal regista, molto bravo a indirizzare l’attenzione dello spettatore verso la via più semplice e anche se vogliamo più inquietante. Per tutto il film si arriva davvero a credere che il protagonista, Eisenheim, sia capace di portenti prodigiosi, che la magia (quella vera) esista veramente e che possa trasformarsi ben presto in evocazione di spiriti, in particolar modo se l’illusionista del titolo perde in modo tragico la sua amata e vuole in qualche maniera rivederla seppure in vesti eteree e inconsistenti.

Ci troviamo in Europa alla metà dell’Ottocento e più precisamente a Vienna. La gente si appassiona a tutto ciò che è irreale ma allo stesso modo visibile davanti ai suoi occhi. Ecco perché Eisenheim è tanto rispettato e idolatrato. E’ l’unico capace di trucchi inspiegabili ma dagli effetti prorompenti. E’ misterioso e ambiguo, il suo passato è sconosciuto ai più e questo sembra aumentare il suo fascino. Ben conscio del suo potere e della sua fama non perde coraggio neppure quando il principe ereditario al trono di imperatore austroungarico lo vuole a tutti i costi togliere di mezzo, prima per semplice fastidio e poi per gelosia nei confronti della sua promessa, la duchessa Sophie. Ignora che Eisenheim e la ragazza si conoscono da tempo e che da molti anni aspettano di ritrovarsi per coronare un desiderio espresso quando erano ancora poco più che bambini.

Ecco su questa base si va a costruire davanti ai nostri occhi un castello di carte complesso e ricco di vicoli ciechi come in un labirinto di specchi in un luna park. Pensiamo una cosa e veniamo del tutto smentiti sul finale. Eppure tutto il film è disseminato di indizi e suggerimenti su come interpretate ogni singola svolta nella vicenda. Chissà magari i più attenti saranno stati in grado di svelare il mistero molto prima del finale ma sono ben felice di essere invece stata smentita da un vero trucco alla Copperfield che mi lascerà sempre un  buon ricordo di questo film poco premiato al botteghino.

E’ un mix di generi: drammatico, fantastico e thriller. Il tutto presentato in modo magistrale soprattutto per quel che riguarda i costumi che immergono del tutto nelle atmosfere tipiche dell’Ottocento. Ma una nota di merito va a anche alla scelta di presentare il passato dell’illusionista attraverso un effetto stile vecchia macchina da presa, come se si trattasse di un film risalente all’epoca di Lumiere: immagini sgranate che si aprono e si chiudono con effetto in dissolvenza in entrata e in uscita. Molto originale e gradevole.

Eccellente poi l’interpretazione di Edward Norton, un attore fantastico sotto tutti i punti di vista.

VOTO 7,5   

lunedì 24 settembre 2012

4 X-Factor 6…prime impressioni

Questo è il mio primo anno da abbonata Sky e grazie a ciò ho potuto seguire “in presa diretta” (seppur registrata) la prima puntata della nuova edizione di X-Factor. Come tutti sanno le prime quattro puntate sono dedicate ai provini e alla scelta finale dei componenti delle quattro categorie (la cui assegnazione è ahimè nota da almeno un paio di mesi grazie al servizio non richiesto ma comunque offerto da alcuni siti di televisione e spettacolo di cui non citerò il nome). Detto questo passiamo alle impressioni generali visto che è ancora prematuro dare un giudizio riguardante i primi ammessi alle fasi successive dei provini.

Il montaggio è piacevole, veloce, molto americano ma soffre di un male incurabile: la tendenza a dare ampio spazio (troppo spazio) ad alcuni concorrenti a discapito di altri che pur avendo ricevuto la maggioranza di SI sono scivolati via senza colpo ferire. Questo mi ha fatto immediatamente pensare che le interviste e i siparietti riguardanti alcuni aspiranti cantanti non sono altro che “l’angolo di coloro che sono stati scelti per rappresentare le varie categorie” ossia coloro che ce l’hanno fatta. Un modo per farceli conoscere meglio ma anche uno strumento utilizzato male visto che non tutti gli spettatori desiderano sapere in anticipo ciò che dà sostanza alle prime fasi del programma. Non ho gradito neppure tutta quell’inutile attenzione riservata a coloro che erano 4 NO certi, ossia gli over 50 o i fenomeni da baraccone. Giusto invece il fatto di aver fatto comunque vedere tutti quei casi in cui c’è stata battaglia tra i giurati e dove il verdetto finale non ha in alcun modo rappresentato l’oggettività del valore del cantante.

Ciò che appare amaramente evidente è che la giuria non ha più benzina.

Morgan è stufo marcio e si vede. Evidentemente gli serve uno stipendio fisso per sopravvivere altrimenti non si spiega in nessun modo questa mania ossessivo compulsiva di partecipare ad un programma in cui lui è il primo a non credere nel progetto. Il primo ad affossare la sua stessa squadra (almeno così è apparso nelle ultime edizioni), il primo a sbadigliare nei momenti morti, il primo a schierarsi dalla parte di colei che meno capisce di musica ossia una Ventura incompetente e rabbiosa.

Elio è sempre stata la scelta sbagliata (almeno a mio modesto avviso) ma si continua a perseverare nel riproporlo come le penne alla vodka o il vitel tonné in un ristorante di bassa lega. E’ antipatico, onestamente poco esperto in vocalità e spesso colpevole di accodarsi seduta stante alla matrona de Turin. Inutile.

Simona Ventura. Non saprei neppure da dove cominciare perché ormai questa donna offre il peggior esempio televisivo di assenza di professionalità. E’ talmente accidiosa e consapevole di essere sul viale del tramonto che finisce per riversare la sua copiosa bile sul povero o povera malcapitata che per un insignificante quanto misterioso motivo la fa uscire letteralmente dai gangheri. Una è sovrappeso e allora merita un sonoro NO perché lei “non vuole creare un infelice”, il che non ha alcun senso visto che in teoria nella musica dovrebbe contare esclusivamente la voce e non l’aspetto estetico. Almeno nella musica intesa in modo serio. La sua bassezza è talmente evidente che la vediamo assurdamente battibeccare con un sempliciotto che aveva tanto tempo da perdere (ma questo alla Ventura non dovrebbe interessare visto che viene profumatamente pagata per presenziare a tutte le fasi della trasmissione e ringraziasse che se non fosse per Murdoch sarebbe a casa a pettinare le bambole), umilia una ragazza sarda colpevole di aver stonato e di essere troppo presuntuosa ma poi beatifica e premia una che ha vinto Miss Italia 2011. Una sfiatata che è stata precedentemente trombata da Sanremo Giovani per manifesta incapacità vocale. Perché? Azzardo l’ipotesi che abbia premiato l’aspetto fintamente dimesso della suddetta (una tale Stefania Bivone) o l’aspetto estetico o le lune della Mona nazionale. Non lo sappiamo ma così è. Sarebbe allora inutile e pleonastico domandarsi perché vengano sempre promossi a pieni voti giovani virgulti dal bicipite guizzante, dal labbro carnoso, dal fisico roboante e al contrario, inesorabilmente bocciati quelli con i brufolazzi, gli occhiali o l’aspetto vagamente gay, punk, dark, grunge e via dicendo. Per la Ventura l’uomo cantante dev’essere virile, con la magliettina aderente, ammiccante e giovane, molto giovane. Verrebbe da pensar male ma tant’è che siamo alla sesta edizione è il copione è sempre il medesimo. Vien da ridere a pensare alle parole rilasciate in un filmato in cui si prende il merito della vittoria della Michielin, quando lei per prima l’ha sempre trattata peggio che male preferendole una che è scomparsa dalle scene molto in fretta (Nicole). La Ventura dovrebbe pensare al suo di aspetto fisico invece di guardare nel piatto degli altri, non fosse altro che per quel viso cascante nonostante le numerose e orrende plastiche che l’hanno decisamente rovinata sia dentro che fuori.

Arisa è l’unica che onestamente sa fare il suo mestiere e che soprattutto manifesta un certo entusiasmo nell’approccio alla trasmissione. Giudica con vera imparzialità, motivando i suoi NO e i suoi SI con argomentazioni convincenti. Soprattutto non ha quel fare di superiorità fastidiosa e immotivata che caratterizza i suoi colleghi di lavoro. Premetto che non ho una grandissima considerazione di Arisa come cantante tanto è vero che la considero solo una buona corista con una voce intonata ma priva di uno stile veramente personale, penso però che sia l’unica ad avere davvero buon orecchio lì dentro, credo che abbia maggiore competenza degli altri tre a livello di vocalità.

venerdì 21 settembre 2012

0 Essi vivono (1988)–John Carpenter

Trama: la Terra è stata colonizzata da milioni di alieni che si nascondono tra la gente sotto mentite spoglie, l’unico modo per vedere il loro vero aspetto da scheletri scarnificati è inforcare degli speciali occhiali da sole…

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John Carpenter è un grande regista capace di interpretare l’horror, l’action e il sovrannaturale in modo strabiliante, tanto da creare uno stile riconoscibilissimo e venerato dai milioni di fans dei suoi numerosi cult movie (non ultimi i mai abbastanza lodati Grosso guaio a Chinatown e 1997: Fuga da New York, solo per citarne due). I suoi film creano dipendenza, generano mondi notturni, società degradate, metropoli ricche di violenza, politici corrotti e grandi eroi dalla grande vena ironica.

In They Live l’eroe è un buzzurrone dai capelli mesciati e lunghi, un certo John Nada (interpretato dall’allora stella del wrestling Roddy Piper), un uomo che gira l’America con la sua camicia di flanella a scacchi, i jeans sdruciti e lo zaino in spalla. E’ un tipo concreto e desideroso di guadagnarsi la pagnotta con i grossi muscoli dei suoi forti bicipiti ma finisce per scoprire un mondo che si nasconde al di là di un velo che nasconde il vero aspetto delle cose: attraverso un paio di occhiali da sole dallo stile parecchio anni 80 vede il mondo popolato da mostri e da messaggi subliminali che sono invisibili ai più e capisce di avere una missione nella vita. Sterminare gli alieni per salvare il genere umano. Impresa difficile ma non per un eroe creato da quel genio di Carpenter.

L’elemento più affascinante di questo genere di film è il modo in cui senza troppe pippe viene portato a termine l’obiettivo del protagonista. Niente giri di parole, spiegazioni essenziali, qualche scontro a fuoco e lieto fine. Il tutto condito da dialoghi ironici e da un finale stupendo (da ammirare le sequenze finali con lo squarciamento del velo che nascondeva la verità agli esseri umani…divertentissimo). Certo il film inizia lento lento ma poi una volta presa la rincorsa non si ferma più trascinando lo spettatore in situazioni rocambolesche e ricche di ritmo.

VOTO 8

lunedì 17 settembre 2012

0 Prometheus (2012)

Era dalla primavera scorsa che attendevo di poter vedere questo film e oggi 17 settembre 2012 ho esaudito il mio desiderio. Sono da sempre una fan accanita dei vari Alien che pur essendo altalenanti a livello qualitativo e narrativo oltre che stilistico sono sempre stati capaci di succhiarmi via l’anima ogni volta che mi sono trovata davanti allo schermo di un cinema o di un televisore. Certo molto dipendeva dalla presenza pesante (nel senso di pregnante e fondamentale) di Sigourney Weaver nei panni dell’inossidabile Ripley. Era il lontanissimo 1979 e il mondo impazziva per quello che con il passare degli anni è diventato il metro di paragone per tutto il genere fantascientifico ossia il primo Alien, diretto da Ridley Scott. In effetti l’unico film dell’allora tetralogia diretto dal maestro (i successivi portano invece la firma di Cameron, Fincher e Jeunet), primo vero esempio di come si possa costruire un film su un unico attore senza che questo porti ad un decadimento della struttura portante. Tutti gli appassionati ricorderanno la battaglia di un’unica donna contro una creatura aliena (lo xenomorfo) capace di distruggere un intero equipaggio. Si ricorderà la sensazione claustrofobica e di ansia insopportabile che pervadeva l’intera durata della pellicola. La stessa sensazione, con una decisa virata verso l’orrore più cruento, la si trova in Alien scontro finale (nella mia classifica personale, a pari merito col capostipite). Alien 3 e Alien la clonazione rappresentano invece la parabola discendente dell’intera saga, piuttosto caotici e inverosimili, in particolar modo l’ultimo della serie che vede l’improbabile rapporto di simbiosi tra una Ripley clonata e il suo figliolo alieno. In effetti ci si è molto distaccati da quelli che erano gli intenti iniziali fondati più che altro sulla tensione, sulla curiosità ma anche sulla paura di ciò che non si conosce, sull’esplorazione di pianeti lontani e soprattutto sulla lotta per la sopravvivenza. Si è arrivati alla più totale spettacolarizzazione di ogni singola sequenza e alla riproposizione senza soluzione di continuità di una trama che contempla un equipaggio costituito da un gruppo di esseri umani (per lo più soldati o scienziati) e di un androide (quasi sempre di animo nobile nonostante l’ipotetica assenza di sentimenti).

Ed è così che Ridley Scott a distanza di 33 anni riprende il suo posto nella plancia di comando, azzera tutto e si pone l’obiettivo ambizioso di esplorare e narrare le vicende che portano al primo Alien facendo un bel balzo indietro nel tempo al 2089. Ci troviamo quindi davanti a quello che in gergo viene definito prequel e che non sempre ha dato i frutti sperati basti pensare alla terribile trilogia di Star Wars. In questo caso il responso (ovviamente parlo per me) è positivo.

Il film è bello, realizzato con cura e capace di suscitare infiniti interrogativi che ahimè non trovano risposta se non in maniera molto parziale, ma fortunatamente pare che gran parte di essi saranno soddisfatti grazie al prossimo film che dovrebbe portarci molto più vicini alle vicende del primo Alien. Questo è un bene visto e considerato che Prometheus ha un finale che lascia tutti con l’acquolina in bocca e con molte domande lasciate in sospeso.

La sequenza iniziale è quella che personalmente mi ha lasciato più perplessa nel senso che mi sta facendo impazzire. Leggendo qua e là ho scoperto che nelle intenzioni del regista dovrebbe in realtà riferirsi ad un pianeta diverso dalla Terra (uno dei tanti colonizzati da questa razza aliena) e questo diciamo che potrebbe avere anche un senso ma non spiega perché l’ingegnere beva l’intruglio che lo trasforma in una forma aliena altamente distruttiva. Il pianeta sembrerebbe infatti disabitato. Una sorta di suicidio (visto che sembrerebbe quasi l’ultimo della sua specie una volta che la navicella prende il volo lasciandolo in balia di se stesso)? Un esperimento su se stesso? Chissà. Questa è senz’altro la parte più affascinante del film, in quanto la scoperta che questa razza aliena è stata la vera e propria creatrice della nostra specie (identico dna) pone molti interrogativi sul nostro concetto di evoluzionismo e allo stesso tempo su Dio stesso. In questo caso si è molto parlato di Prometheus come di un film che si interroga sulla religione e soprattutto sulla fede, elementi che certamente lo pongono su un gradino elevato rispetto al solito film di fantascienza tutto napalm e creature mostruose. Il film è quindi complesso rispetto a tutto ciò che riguarda questa misteriosa civiltà di cui possiamo vedere soltanto qualche filmato olografico e la reazione violenta dell’unico sopravvissuto alla criogenesi (paura degli uomini in quanto per lui specie aliena o coscienza che l’uomo è pericoloso e perciò va distrutto?).

Il resto del film è molto meno attraente da un punto di vista filosofico nel senso che si presenta come il solito canovaccio con un solo sopravvissuto alla missione spaziale. Le morti si susseguono abbastanza rapidamente lasciando la sensazione che Scott sia veramente interessato ad approfondire temi più profondi. In realtà il cast non è favoloso, tutti ricoprono ruoli tagliati con l’accetta e senz’ombra di dubbio la dottoressa Shaw non è lontanamente paragonabile alla profondità di Ripley, alla sua tenacia e alla grande voglia di vivere che l’aiuta a sfuggire a morte certa. La Shaw in effetti è una scienziata perciò il suo istinto di conservazione è più legato alla sete di conoscenza piuttosto che all’autoconservazione, ciò la rende molto fredda e lontana da un processo di immedesimazione da parte dello spettatore. L’androide David fa rimpiangere tantissimo l’indimenticabile Bishop e non è del tutto chiaro il motivo per cui detesti tanto gli uomini quasi in una forma di invidia perniciosa che lo porta a compiere un terribile quanto immotivato esperimento sul povero Holloway.

In generale il film comunque è molto bello ovviamente non paragonabile ad Alien ma sarebbe stato impossibile superare il capostipite e credo non fosse neppure nelle intenzioni del regista. E’ un ottimo film di fantascienza che scorre via veloce nonostante le due ore abbondanti durante le quali si dipanano le vicende dell’equipaggio. è coinvolgente ed emozionante. E’ frutto dei nostri tempi nel senso che la recitazione come ho detto più sopra non sembra tanto importante, così come i dialoghi veramente banali e ricchi di frasi fatte. Ecco Sigourney Weaver era ed è una grande attrice prima di tutto e ci ha regalato una Ripley umana e piena di debolezze oltre che di una grande forza interiore, mentre il cast attuale non regge il confronto non essendo in alcun modo capace di mostrare emozioni reali. Persino Charlize Theron non riesce a spiccare il volo incastrata nel ruolo di donna astiosa ed egoista, totalmente fuori parte e assolutamente superflua ai fini della trama.

Un’ultima riflessione riguarda il 3D. Ho visto il film in tre dimensioni e devo dire che è stato solo uno spreco di soldi in quanto non c’è un solo fotogramma che ne giustifichi il costo. Niente di niente. Una vera delusione e un’autentica presa per i fondelli perciò consiglio a tutti di godersi il film in versione canonica.

VOTO 7

0 Mr Brooks (2007)

Trama: Mr Brooks è un uomo apparentemente soddisfatto della sua vita, innamorato della bella moglie, padre devoto e imprenditore di successo. In realtà dentro di sé alberga un mostro che uccide le sue vittime per saziare la sua insopprimibile sete di sangue e morte…

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Accidenti com’è strano vedere Kevin Costner (protagonista e produttore del film) nei panni di un feroce e spietato serial killer, pazzo quanto basta per dialogare amabilmente con il suo invisibile e malvagio grillo parlante impersonato da un inquietante William Hurt.

Il film è un classico thriller, assai ben fatto e con colpi di scena veramente stuzzicanti. Il ritmo non è sostenuto ma anzi a volte si ha come l’impressione che il tutto proceda a scatti: azione, tempi morti, azione, tempi morti, tanto da non rendere Mr Brooks un film da mettere nella propria classifica dei migliori dieci thriller della storia del cinema. Se la cava e questo potrebbe bastare, se non fosse per un intreccio abbastanza caotico con intermezzi poco utili ai fini della trama principale. Mi riferisco soprattutto a tutta la storia riguardante la detective impersonata da una sempre poco memorabile Demi Moore: tutto è abbastanza scontato e peggio ancora ridicolo.

Il film c’è nel senso che è sempre affascinante penetrare nella mente di un serial killer e soprattutto questo film ha il merito di iniziare letteralmente col botto ma perde il filo abbastanza di frequente, dando tra l’altro per scontati una marea di particolari che avrebbero fatto comodo a chi assisteva alla visione, come per esempio tutto ciò che riguarda il misterioso viaggio di Brooks verso l’università della figlia per cercare di scagionare quest’ultima tramite un secondo omicidio.

Divertente ma abbastanza improbabile la trasmissione genetica da padre a figlia dei geni del male. Perdoniamo la cosa solo perché onestamente non si trova molto di frequente qualche buon thriller da godersi nei pomeriggi di fine estate e anche perché a volte è carino il revival della fine con punto di domanda tipico di un cinema anni 70 80 che ormai non si trova più da nessuna parte se non in quei film caratterizzati da dissenteria autorigenerante come i vari Saw o Final Destination.

VOTO: 6,5

venerdì 14 settembre 2012

0 L’ultimo sogno (2001)

Trama: George (Kevin Kline) scopre di avere un cancro all’ultimo stadio e decide di trascorrere i mesi che gli rimangono insieme a suo figlio Sam (Hayden Christensen), un adolescente scontroso con cui da tempo non ha più un rapporto. Durante la difficile convivenza i due iniziano ad avvicinarsi e a volersi bene complice anche la costruzione di una casa, da sempre il sogno nel cassetto di George…

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Certo gli americani ci hanno abituato da almeno 20 anni al canovaccio che risponde all’equazione malato terminale=ricongiungimento finale e tanti buoni sentimenti e devo dire che i miei occhi lucidi testimoniano ampiamente il fatto che l’idea di partenza rimane sempre valida soprattutto se si ha un cuore di pastafrolla come il mio. Inoltre la pellicola ha ricevuto tanti riconoscimenti compreso un Golden Globe e ciò testimonia l’assoluta qualità del prodotto ma soprattutto dei suoi splendidi interpreti in modo particolare Kevin Kline e Christensen, quest’ultimo nel suo primo ruolo importante. Mettiamoci pure il premio Oscar Kristin Scott Thomas e il gioco è fatto.

Il film non è un dialogo a due come ci si aspetta da questo genere di impronta fortemente drammatica, spesso incentrato su storie d’amore sofferte e tragiche. Qui al contrario abbiamo il rapporto difficile tra un padre e un figlio ma anche tutta una serie di personaggi e storie di contorno che rendono Life as a House un vero capolavoro. Non mancano le situazioni ironiche e gli scontri generazionali, la droga, il sesso, la rabbia ma anche l’amicizia, l’amore ritrovato o appena sbocciato. C’è anche tanta retorica americana ma questo è un difetto che si perdona proprio perché nasce dal dna degli sceneggiatori e non da una scelta furbetta. Per un americano non è proprio possibile rinunciare ad esporre in prima vista i propri valori come per esempio la collaborazione tra vicini, gli insegnamenti dei padri e una certa morale che per noi europei è un concetto sconosciuto. Noi siamo più portati a raccontare l’ineluttabilità delle scelte e della vita, mentre gli americani tendono sempre a rimettere a posto le situazioni secondo il loro concetto preferito ossia il “va tutto bene”.

Penso che forse l’unico vero neo del film sia proprio il finale che delude chi si aspetta che la casa costruita con tanta determinazione passi a Sam. In realtà viene generosamente elargita alla vittima di un antico incidente stradale provocato dall’odiato padre di George come in un’espiazione finale per un peccato altrui. Ma in fondo l’ultimo sogno di George era la felicità del figlio e questo è un desiderio che in effetti si avvera molto prima della fine.

VOTO 8

giovedì 13 settembre 2012

0 Recensione Una voce nella notte (2006)

Trama: Gabriel (Robin Williams) è uno scrittore che fa anche lo speaker radiofonico nella città di New York. Grazie alla sua notorietà diventa l’idolo di Pete, un quattordicenne del Wisconsin, malato di aids, che ha scritto un romanzo che racconta la sua triste storia di sevizie infantili e che vive con la sua psicologa Donna. Pete riesce a far pervenire la sua bozza a Gabriel che ne viene subito conquistato, finendo per intrattenere un’amicizia telefonica col ragazzo a cui si sente sempre più affezionato. I suoi amici però iniziano a sospettare che in realtà Donna e Pete siano la stessa persona, così Gabriel vinto dal dubbio decide di partire per il Wisconsin per arrivare alla verità….

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Il film è un vero e proprio thriller che è riuscito per 3/4 della sua durata a catturare la mia attenzione con colpi di scena forse un po’ scontati ma soprattutto con un’atmosfera davvero raggelante e rarefatta. Certo gran parte del merito va a Robin Williams che raramente si è cimentato in pellicole a tinte gialle, più a suo agio con la commedia e il drammatico, poli opposti che però hanno visto scaturire dalla sua immensa bravura il meglio che possa offrire il talento istrionico di questa grande maschera. Qui la sua parte è quella di un omosessuale di mezza età che vive più nel ricordo che nel presente, diviso tra l’amore per il suo compagno e il desiderio di scavare nella sua stessa vita per trarre fuori storie sempre più coinvolgenti che possano dare emozioni al suo pubblico di radio ascoltatori. Quando Donna e Pete bussano alla sua porta lo trovano sconfitto perché appena scottato dalla fine della sua storia d’amore e perciò più vulnerabile. Per lui diventa quasi automatico legarsi ad un ragazzino che lo idolatra, sieropositivo (come il suo ex compagno che però ormai è fuori pericolo) e solo, proprio come lui. Lo vede come un figlio ma anche come una nuova occasione per raccontare nuove storie, cosa che puntualmente fa all’inizio e alla fine del film in una cornice che rappresenta forse il punto più basso della pellicola, perché sembra quasi una leziosità letteraria tutto sommato inutile. Entreremmo e usciremmo comunque benissimo nella e dalla storia senza bisogno di qualcuno che ci spieghi l’antefatto. A quello basta l’enigmatico “tratto da una storia vera” che compare prima della sequenza iniziale. Che dire quindi? Beh il finale è abbastanza banale, anche se a dire il vero il film è colpito da questo male già dopo 30 minuti dove tutti immaginiamo quale sia la verità ma si va avanti agevolmente proprio perché il regista è stato molto bravo a giocare sul silenzio, sui tentativi infruttuosi di Gabriel e in generale sul senso di ansia crescente che avvolge il protagonista e di riflesso lo stesso spettatore. E’ un gioco psicologico a cui non viene data spiegazione proprio come avviene poi nella vita reale dove non tutto può essere spiegato con ragioni di causa/effetto.

VOTO 6,5  

martedì 11 settembre 2012

0 Rusty il selvaggio (1983)

Trama: Rusty è un adolescente che non perde mai occasione per fare a botte con qualcuno con la speranza di diventare un giorno come suo fratello maggiore chiamato da tutti “quello della moto” e preso ad esempio da tutti i ragazzi del quartiere…

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La regia è di Francis Ford Coppola ma ciò non significa che questo sia un film memorabile almeno a mio gusto personale. L’ho trovato troppo “compiaciuto” nel senso che Coppola sembra che voglia a tutti costi far uscire la sua firma da ogni singolo fotogramma il che ovviamente non è una colpa ma se lo stile non piace chiaramente ne va a perdere tutto il film. La lentezza è esasperante così come il continuo simbolismo legato alla presenza di orologi che segnano ore a vanvera o che sono addirittura privi di lancette. Altra scelta stilistica da me aborrita è l’uso del bianco e nero, giustificato col fatto che “quello della moto” è daltonico perciò ci dobbiamo sorbire un’ora e mezzo di cinema demodé. Non so, forse l’unico elemento diciamo interessante è la presenza di giovani attori in erba che con gli anni si sono fatti un nome a Hollywood, come un irriconoscibile Nicolas Cage o il protagonista Rusty James interpretato da un imberbe e poppante Matt Dillon, in realtà decisamente più indicato per un filmetto giovanilistico anni 80 che a una parte così difficile. Mickey Rourke è già ben rodato per parti successive che lo vedranno sempre più nel ruolo del bastardo.

Mah che dire in fondo anche la trama è poco chiara: abbiamo un giovane che vive nei quartieri bassi e che ha come unico scopo nella vita quello di essere rispettato come suo fratello più grande che quando aveva la sua età era a capo di una delle tante bande della città. Il problema sta nel fatto che Rusty non è preso in considerazione da nessuno tranne che da Steve un ragazzo con gli occhiali che lo seguirebbe ovunque. La cosa peggiore sarà poi scoprire che in realtà il fratello tanto ammirato è semplicemente una specie di svitato che fa discorsi molto lontani dal capo di una banda ma anzi più vicini ad un saggio tibetano.

Emozioni zero, colpi di scena zero, atmosfera glaciale e recitazione a singhiozzo.

VOTO 5

lunedì 10 settembre 2012

0 La sacerdotessa di Avalon (2000)

La Sacerdotessa di Avalon è il romanzo che completa l’omonimo Ciclo ideato e scritto dalla grande e compianta Marion Zimmer Bradley, scomparsa un anno prima della pubblicazione del libro che proprio per questo motivo è stato portato a termine dalla scrittrice fantasy Diana Paxson.

Il romanzo vede come protagonista Eilan, una ragazza portata ad Avalon per intraprendere il percorso di sacerdotessa. La sua figura apparentemente molto simile alle altre eroine dei precedenti romanzi assume un ruolo preponderante nel mondo in quanto sarà la futura madre dell’imperatore Costantino che nel 313 proclamò il Cristianesimo religione ufficiale dell’impero, ponendo di fatto fine al paganesimo e alle antiche credenze che ancora sopravvivevano all’interno dei territori europei. Eilan, che abbandona Avalon per amore di un uomo ma anche per compiere il destino che lei stessa ha visto in una visione inviatale dalla Dea Madre, cambia il suo nome in quello di Elena, lasciandosi alle spalle il suo passato da sacerdotessa e abbracciando una nuova vita da sposa di un soldato romano. La sua nuova vita la vede sempre in viaggio per l’Europa a mano a mano che suo marito Costanzo sale sempre più nella scala del potere arrivando infine ad assumere il ruolo di imperatore, fatto che determina la fine dell’unione con Elena, in quanto non riconosciuta dalla società romana visto che la donna non è ufficialmente sposata con Costanzo. La donna nel frattempo è diventata madre di Costantino un bambino che manifesta fin da subito la sua arroganza e la determinazione ad emergere sul resto del popolo fino a seguire le orme del padre. Elena vede così la sua felicità svanire ma con pazienza riesce a rendersi autosufficiente e a realizzarsi come donna, aiutando altre donne a farsi una cultura ma anche a praticare il proprio culto al riparo dalle continue persecuzioni. Entra così in contatto con molte religioni riconoscendo in ognuna di esse delle attinenze con il suo credo nella Dea e arrivando alla conclusione che in fondo tutti i credi del mondo hanno un origine comune che dovrebbe unire tutti i fedeli ma che invece li allontana. Riconosce nel Cristianesimo una religione buona ma che la Chiesa ha travisato fino a plasmare la parola di Dio a suo comodo, allontanandosi da ciò che avrebbe voluto Gesù Cristo. Nonostante lei non abbandoni mai il suo credo, riesce comunque a farsi ben volere da tutti i cristiani e dal clero con cui entra in contatto soprattutto grazie alla sua buona disposizione d’animo che la spinge ad aiutare i bisognosi nonostante il suo ruolo importante di Imperatrice Madre. Ed 'è così che nasce il mito di Santa Elena nonostante Eilan non abbia mai abbracciato il cristianesimo.

Insomma il romanzo a differenza dei precedenti è improntato su figure realmente esistite e soprattutto non si svolge unicamente in Britannia ma ci accompagna in un affascinante viaggio nell’antico impero romano, dalla Germania a Roma e da Roma a Gerusalemme riuscendo a far rivivere davanti ai nostri occhi un mondo ormai scomparso. Questa cornice si inserisce in un contesto più profondo determinato dal completo affermarsi del cristianesimo in un mondo pagano, ultima fase nel ciclo di Avalon iniziato quando ancora il mondo era dominato da varie mitologie e da tutta una serie di divinità che governavano il destino dell’uomo. Questo è ovviamente un punto focale nella storia dell’umanità e viene trattato dalle due scrittrici in modo molto preciso e a dire il vero molto amaro visto e considerato che entrambe queste donne sono e sono state ferventi seguaci di una religione affine a quella di Avalon ma trasportata ai nostri giorni. Traspare questo velo di amarezza nel constatare come un’unica religione sia riuscita a spazzare via tanti credi sopravvissuti per secoli in quasi completa armonia gli uni con gli altri. Costantino usa la religione come strumento politico e di indottrinamento per il popolo ed è per questo che Elena alla fine decide di riprendere in mano la sua vita e tornare da dove era partita, ormai libera dai condizionamenti di una visione che l’ha portata lontana dal suo sogno di diventare Grande Sacerdotessa per realizzare in effetti qualcosa che per molti versi ha cambiato il volto del mondo e non in maniera positiva.

L’elemento che più cattura in questo splendido romanzo è la storia di questa donna così forte e determinata che parla in prima persona (così com’è tipico nello stile della Zimmer) e ci comunica così tutte le sue emozioni arrivando in molti punti a picchi di vera poesia. In particolar modo questo si nota sul finire del romanzo quando Elena è ormai molto anziana ma sempre lucida e desiderosa di tornare a casa dopo tanti anni costretta a vivere lontano dalla sua patria. Il suo ritorno in Britannia è molto bello, descritto con grande cuore come se fosse una sorta di addio da parte della Paxson a quella che essa stessa definisce la sua Sacerdotessa riferendosi a Marion Zimmer Bradley. Apprezzabile anche la fine che in modo volutamente vago lascia presagire due possibili spiegazioni alle ultime sensazioni di Eilan: il ritorno all’isola di Avalon o la morte nella luce della Dea, entrambe comunque bellissime e ricche di pathos.

Devo dire da affezionata lettrice che questo romanzo chiude degnamente un ciclo di grande bellezza che ha visto la luce con il meraviglioso Le nebbie di Avalon (da me letto quando ero adolescente) libro che in realtà rappresenta la vera fine del ciclo di Avalon nonostante sia stato scritto prima di tutti gli altri. Mi mancherà non sapere più niente di ciò che capita al di là delle paludi di Inis Witrin ma nel mio cuore saprò sempre che una sacerdotessa mantiene eternamente vivo il fuoco sacro ai piedi del Tor.

VOTO 10

giovedì 6 settembre 2012

0 Io piaccio (1955)

Trama: in un laboratorio di genetica vengono fatte alcune ricerche dal Professor Roberto Maldi riguardanti soprattutto gli ormoni legati al coraggio ma si scoprirà che in realtà la fialetta che l’uomo sperimenta su se stesso accresce il fascino maschile per un tempo di 24 ore…

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Il protagonista di questa debolissima commedia è Walter Chiari nei panni di un biologo che prova su se stesso gli effetti della sua ricerca scientifica e a contraltare il suo indubbio talento vi è quel mostro sacro chiamato Aldo Fabrizi che ricopre il ruolo del proprietario dell’azienda che fa capo al laboratorio. Oltre ai due attori non manca la classica macchietta impersonata dal solito Peppino de Filippo che niente toglie e niente aggiunge ad un film di poca sostanza e incapace di suscitare anche un solo piccolo barlume di ilarità.

E’ indubbio che la trama sia quanto di più lontano possibile dal solito canovaccio all’italiana ma allo stesso tempo la resa non è delle migliori con i soliti temi banali dell’uomo infedele, la donna compiacente, la moglie non proprio bellissima, l’assistente innamorata da sempre del dottore e così via senza un vero e proprio salto di qualità.

Rendiamoci conto che in quegli anni, ma diciamo pure nella tradizione cinematografica italiana, la presenza dei grandi nomi dell’avanspettacolo erano garanzia di sicuro successo al botteghino evitando così lo sforzo da parte degli sceneggiatori di offrire qualcosa di più allo spettatore. Insomma il cinema era proprio intrattenimento allo stato puro e nel senso più basso del termine ovviamente con le dovute eccezioni. In questo caso abbiamo una commedia abbastanza insulsa, noiosa e girata interamente nei teatri di posa.

VOTO 4

lunedì 3 settembre 2012

0 Un mercoledì da leoni (1978)

Trama: 1962, California. Matt, Leroy e Jack sono tre ragazzi appassionati di surf, ammirati da tutti per la loro grande abilità sulla tavola. La loro amicizia si prolunga attraverso gli anni fino ad arrivare alla grande mareggiata del 1974, occasione che li troverà di nuovo insieme dopo anni di lontananza…

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Il film (Big Wednesday) è firmato da John Milius e rappresenta davvero un cult movie per tantissimi appassionati di cinema. Io sono arrivata tardi a vedere per la prima volta questa pellicola che in realtà conoscevo solo di “fama” e devo dire che la sensazione finale è di qualcosa di amaro e nostalgico allo stesso tempo. All’inizio se devo essere sincera ho fatto fatica ad entrare nell’ottica del film perché si tratta del classico esempio di sviluppo narrativo lentissimo. Ritmi bassi che proseguono fino ai titoli di coda e che rappresentano secondo me un grosso ostacolo alla visione di questo cult movie da parte delle generazioni più giovani ma poco male, in fondo non si è costretti a vedere tutto quello che è considerato a torto o a ragione un “capolavoro”. Per me si tratta di un film generazionale e molto legato all’epoca in cui si svolgono i fatti cioè 1962-1974, che per gli americani rappresentano un po’ lo spartiacque tra il sogno americano e la dura realtà rappresentata dalla guerra del Vietnam. Il regista non che sceneggiatore ha voluto richiamare quei tempi usando però tematiche più profonde che potessero coinvolgere tutti gli spettatori, statunitensi o meno, come per esempio l’amicizia, l’amore, la famiglia, la morte, tutti elementi che danno risalto ad un film che nasce in primis come omaggio al mondo del surf, sport da noi poco conosciuto e praticato.

In realtà l’elemento più caratterizzante è sicuramente la descrizione di come il passare del tempo a volte possa portare dei cambiamenti anche dolorosi nella vita delle persone, infatti vediamo come Jack per esempio sia costretto a partire per il Vietnam lasciandosi alle spalle la spensieratezza di giorni che non torneranno più e quando torna cova la speranza che la ragazza che aveva lasciato a casa tre anni prima sia ancora ad aspettarlo per poi scoprire che nel frattempo si è sposata. Ma anche Matt riceve un duro colpo dalla vita infatti scopre con amarezza di non essere più considerato dagli appassionati di surf come il più grande campione americano di tutti i tempi in quanto un nuovo surfista più giovane è diventato l’idolo delle folle, scalzandolo di fatto dal trono che l’aveva visto protagonista per tutti gli anni 60. E da qui in effetti che parte la grande sfida alla più grande mareggiata di tutti i tempi, il famoso Big Wednesday, che vede Matt battere il suo giovane rivale ma anche riconoscere il valore di quest’ultimo cedendogli di fatto il testimone e accettando il trascorrere del tempo.

A me il film non ha fatto gridare al miracolo ma gli riconosco il merito di buoni dialoghi e di una stupenda fotografia.

VOTO 6,5

 

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