giovedì 30 agosto 2012

0 Legion (2010)

Trama: la fine del mondo è arrivata e l’umanità viene sterminata da un esercito di angeli mandati da Dio sulla Terra per eliminare la razza umana, colpevole di aver deluso l’Onnipotente. L’unico a ribellarsi è l’Arcangelo Michele che giunge in una piccola stazione di benzina nel deserto americano, dove vive e lavora Charlie, la donna che porta in grembo il nuovo Salvatore degli uomini…

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Forse non sarà il massimo dell’originalità ma questo film riesce a tenere in piedi l’attenzione dello spettatore con ottimi effetti speciali che suppliscono a dei dialoghi da mettersi le mani nei capelli e ad una trama non proprio coerente nel suo sviluppo. Da vera patita del genere catastrofico non ho potuto fare a meno di appassionarmi a certe sottigliezze che con ironia e con un uso magistrale del trucco mi hanno fatto divertire a più riprese in questa afosa e lunghissima estate 2012.

Certo, da fedele spettatrice di Supernatural, ho notato la “novità” dell’Angelo descritto come cattivo e malvagio, nemico dell’Uomo e spietatissimo. In questo film non c’è infatti traccia di Lucifero e dei suoi accoliti, la lotta riguarda solo angeli e uomini e forse proprio da questo punto di vista non ho ben capito chi davvero rappresenta il nascituro, minacciato a più riprese dagli attacchi continui delle creature divine incarnatesi in mostruosi esseri o semplici esseri umani. Non ci viene spiegato ma evidentemente ci troviamo di fronte ad un redivivo Gesù Cristo che dovrebbe in teoria riportare l’umanità (o quello che ne è rimasto) nel giusto solco indicato da Dio nelle scritture.

Il classico gruppetto eterogeneo che si trova per varie circostanze a convivere e sopravvivere nello stesso luogo è un topos abbastanza frequente sia nella letteratura (vedi in particolar modo Stephen King) che nel cinema (mi viene in mente per esempio Tremors o i vari film zombeschi da Romero in poi). Riesce ancora a colpirmi forse perché è sempre interessante da un punto di vista sociologico vedere gli effetti di una convivenza tra classi sociali e storie di vita differenti. Però c’è un però: si poteva fare qualcosa di meglio nella caratterizzazione dei personaggi che sono effettivamente abbastanza deboli e poco credibili, compreso il povero Dennis Quaid che figura come l’unico nome importante in cartellone. In effetti in questo contesto viene trasformato in un cinico e invecchiato personaggio, un po’ zotico e poco sveglio, capace solo di una buona ma telefonatissima uscita di scena in grande stile. Non c’è il personaggio eroico tranne ovviamente Michele che però non fa testo essendo un angelo e non c’è neppure un vero intrecciarsi di destini tra le persone coinvolte nella resistenza armata.

VOTO 6,5  

lunedì 27 agosto 2012

0 La memoria del cuore (2012)

Trama: Paige e Leo sono due giovani sposini innamoratissimi che in una sera d’inverno hanno un terribile incidente stradale che provoca una totale e irrecuperabile amnesia in Paige che scorda totalmente gli ultimi quattro anni di vita trascorsi accanto a suo marito. Leo cercherà in tutti i modi di risvegliare la sua memoria e il suo amore…

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La trama del film si presenta molto appetibile perché spinge lo spettatore a guardare nel buco della serratura di una coppia attraversata da una sfiga incommensurabile e in più se aggiungiamo che il film si basa su una storia vera beh il gioco è fatto.

Durante la visione del film un po’ ci mettiamo nei panni del povero Leo, impersonato da un discreto Channing Tatum attore dalla carriera in super ascesa in quel di Hollywood, marito dimenticato dopo quattro anni di delicatessen dall’effetto letale per un qualunque diabetico poco propenso a tanto profluvio di romanticismo e smancerie. Quest’uomo perde in una notte la propria ragione di vita e deve subire le conseguenze di questa amnesia a mezzo servizio che invece di eliminare il passato brutto di Paige sceglie di spazzare via ciò che di buono è avvenuto a partire dal loro innamoramento. E così deve sopportare il disprezzo dei suoceri fino a quel momento scomparsi in un salvifico buco nero, l’ex fidanzato di sua moglie che per giunta è oggetto d’amore da parte di lei, i due di picche continui e inesorabili e il cambiamento di look e di gusti alimentari dell’insopportabile nuova/vecchia Paige.

Quest’ultima è impersonata da una non memorabile Rachel McAdams, zuccherosa e insulsa come i cioccolatini di cui si ingozza in vari momenti del film. La sua espressività è come quella di un pesce rosso dietro il vetro di un acquario, non trasmette niente se non fastidio. Non è assolutamente capace di farci capire la sofferenza di una donna che ha perso la memoria, sembra una ragazzina viziata che ha finalmente riavuto indietro il prezioso cavallo a dondolo dopo quattro anni di triciclo a pedali, per giunta non di marca. Poco incisivi anche i genitori di Paige impersonati da due attempati attori ormai fuori dai grandi titoli del panorama cinematografico, Sam Neill e Jessica Lange.

La storia quindi è interessante, la recitazione è asettica anche se Tatum un po’ più d’impegno degli altri ce lo mette (altrimenti saremmo coricati sulla sedia a metà del primo tempo) e l’emozione latita. Insomma niente fazzoletti donne.

La conclusione del film è abbastanza fantasiosa nel senso che se l’amore non c’è non c’è, non riesco a immaginare che insistendo qualcosa possa rinascere, ovviamente tenendo conto che la memoria riguardante quella parte della vita di Paige non tornerà mai più. Potrebbe subentrare una sorta di abitudine alla frequentazione che poi non si concretizzerebbe mai in un amore rinato. In fondo il loro amore era nato da una sorta di colpo di fulmine che evidentemente in Paige non ha dato gli stessi risultati una volta persa la memoria. Più logico ma anche un po’ lezioso l’altro risvolto del film: la seconda occasione che Paige regala alla propria famiglia di origine che in effetti a guardare il film sembra proprio il nucleo di tutto, come se il povero Leo appartenesse alla parte meno vera della vita della moglie, sfuggita ad una famiglia dell’alta borghesia che l’aveva delusa. Paige quando incontra Leo si fa un tatuaggio, diventa vegetariana, si veste in modo casual, come se volesse cancellare il suo passato ma quando ha l’incidente ritorna esattamente com’era disprezzando la nuova se stessa. Un po’ frustrante per il marito no?

Insomma un film poco coraggioso, poco intenso e più simile ad un videoclip patinato che a un drammone strappalacrime.

VOTO 5,5

sabato 25 agosto 2012

1 Vesna va veloce (1996)

Trama: Vesna è una ragazza ventunenne che arriva in Italia dall’Europa dell’Est col miraggio di una nuova vita ma la realtà la spinge presto a fare i conti con la meschinità della gente e con la diffidenza verso gli extracomunitari. Per guadagnarsi da vivere inizia a prostituirsi per le strade di Rimini e proprio durante una “nottata di lavoro” conosce Antonio, un muratore onesto che finisce per innamorarsi di lei.

Il film ha quel ritmo lento tipico di un certo cinema italiano del decennio 1990-2000, fatto più che altro di silenzi, pochissimi dialoghi, tanta musica presa a piene mani dai successi dell’epoca e un filo conduttore piuttosto flebile. Di Vesna non ci viene spiegato niente, la vediamo su una corriera con altre ragazze della sua stessa nazionalità e assistiamo alla sua volontaria fuga per il desiderio di rimanere in Italia, paese che l’affascina ma che allo stesso tempo la atterrisce. Non ci sono donne, a parte lei e le sue colleghe “da marciapiede”, all’interno del film. Il suo mondo infatti è fatto per lo più di uomini, bastardi, arrappati, possessivi, violenti. Un universo composto dai peggiori vizi del pianeta Uomo. Non si sa cosa desideri davvero Vesna in quanto non sembra poi così dispiaciuta di fare la prostituta, tanto è vero che la vediamo contare il suo rotolo di soldi con una certa gioia e soddisfazione, come se non fosse denaro conquistato a spese della sua integrità morale. Nel regista, Mazzacurati, c’è un certo qualunquismo e un modo piuttosto banale di dipingere l’Italia e gli italiani: tutti cattivi e razzisti nei confronti dei “poveri zingari” che secondo la tesi (del regista non che sceneggiatore) sintetizzata attraverso le immagini sono tutto sommato dei poveri diavoli. Beh, su questo chiaramente i pareri possono essere diversi ma in ogni caso è oggettivo il fatto che ci troviamo davanti ad un film senza grosse potenzialità e con un cast che non brilla mai. Persino un grandissimo come Silvio Orlando risulta maledettamente fuori posto nella parte del marito fedifrago e dell’uomo che pretende favori sessuali in cambio della sua generosa ospitalità. Antonio Albanese è onestamente bravo, un attore con la capacità di fondere insieme una faccia assolutamente caricaturale con una recitazione anche piuttosto drammatica. La protagonista, una certa Tereza Zajickova, non ha proprio anima e si lascia dimenticare in tutta fretta già all’apparire dei titoli di coda.

Solita roba italiana, lagnosa, lenta e totalmente inutile. Sconsigliato.

VOTO 5

giovedì 23 agosto 2012

0 Royal Caribbean 11-18 agosto 2012 Fiordi

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Puntuale come un orologio svizzero ecco arrivare la cronistoria della mia crociera. Meta scelta: fiordi norvegesi. Compagnia di crociera: la statunitense Royal Caribbean. Ebbene sì dopo due estati trascorse a bordo di Costa Crociere, ho deciso di provare qualcosa di nuovo soprattutto perché parecchio delusa dall’organizzazione della compagnia di crociera più inflazionata d’Italia. Tengo a precisare che la scelta di mollare Costa non dipende assolutamente dalla tragedia del 13 gennaio di quest’anno in quanto avevo già il dente avvelenato da parecchio tempo prima visto il trattamento subito su Costa Fortuna.

Il porto di partenza è stato Copenaghen e devo dire che questo mi ha permesso di ammirare una città meravigliosa e da scoprire meglio magari durante una prossima vacanza visto che mi ha totalmente affascinato. Cosa dire poi dell’emozione provata ad entrare nel negozio Lego? Una gioia per gli occhi di una che ha passato l’infanzia a costruire meraviglie fatte di mattoncini colorati. Ma passiamo alle cose importanti: il porto era decisamente lontano dal mio albergo perciò è stato necessario affidarsi ad un tassista che è riuscito a intascarsi 190 corone per poi portarci sì al porto ma nel molo riservato a Costa Crociere e così abbiamo dovuto trascinare le valigie fino a quando un autista di un pullman Royal ci ha gentilmente soccorso accogliendoci a bordo e portandoci finalmente nel posto giusto.

Inutile dire che l’imbarco è stato più veloce della luce a differenza delle inutili lungaggini di Costa: abbiamo compilato una semplice scheda e poi una delle ragazze addette al controllo dei documenti e alla registrazione dei nostri dati ci ha fornito le nostre schede personali che servono per aprire la cabina, pagare, scendere e salire dalla nave. Dopo questo step, abbiamo detto cheese davanti al fotografo e così le nostre facce sono state associate alle tessere. La Brilliance si presenta subito come una bellissima nave fornita di due piscine, una coperta (molto d’atmosfera) e una scoperta, una parete d’arrampicata, palestra, vari bar e soprattutto un ristorante a buffet (Windjammer) e uno per il pranzo e la cena a la carte (Minstral), entrambi gratuiti compreso il Seaview Cafè dove poter gustare un sandwich, una pasta o una pizza a orari prestabiliti (16-18 e 21-1.00)

Cibo: La prima impressione del ristorante a buffet è stata straordinaria tanto è vero che alla fine è stato il posto in cui ho mangiato più volentieri sia per l’enorme varietà delle pietanze sia per l’eccellenza dei sapori. Ogni giorno si trovava qualcosa di nuovo da assaggiare tanto è vero che non ho quasi mai mangiato la stessa cosa, a parte il purè col sugo di carne che mi ha fatto letteralmente perdere la testa. All’interno della sala si trova sempre posto se si ha un minimo di pazienza o se si va a orari non europei ossia alle 12 o alle 18.30 che come tutti sappiamo sono gli orari preferiti dagli americani (in gran numero sulla nave) per pranzare e cenare. In ogni caso a cena in un angoletto apposito troverete un tipo di cucina diversa ogni giorno, per esempio thai, francese, americana, messicana e così via oltre alle canoniche sezioni in cui trovare e provare il sushi (qualità bassa devo ammetterlo, troppo acetato), vari tipi di carne e pesce cucinati in modi sempre diversi, pasta al forno (all’americana ovviamente e non è un complimento), due tipi di minestra, insalate già pronte o da preparare seguendo la propria fantasia con ingredienti squisiti e freschissimi, salumi e formaggi (squisito il parmigiano a cubetti nella forma scavata), panini farciti e dolci dalla qualità altalenante (ricordo un’ottima cheesecake e una sublime apple pie). Insomma c’è di che soddisfare i palati più esigenti, compreso il mio.

Passando al ristorante alla carta di cui ho usufruito solo a cena e unicamente per le prime 4 sere, devo dire che il mio giudizio non è del tutto positivo. Per carità ciò che ho scelto era squisito ma il menu era composto al 90% da pietanze con aglio, funghi, peperoni oppure salsa di avocado, tutti ingredienti e portate che per intenderci troveremmo in qualche stralunata ricetta di Top Chef o Hell’s Kitchen. Ho in effetti pensato di trovarmi al cospetto di Gordon Ramsey e l’esperienza non mi ha convinto. In ogni caso cercando cercando qualcosa di vagamente normale l’ho trovata per esempio il coq au vin e un’anatra da leccarsi i baffi. Da dimenticare invece gli antipasti (vedi il cocktail di gamberi col ketchup) e i dolci che in definitiva sono gli stessi del buffet ma nella versione più scadente. Da un punto di vista gastronomico quindi non ci siamo del tutto ma è chiaro che si tratta di un parere ultra soggettivo e quindi giustamente sindacabile, mentre se parliamo dell’organizzazione dei tavoli entriamo in un discorso di pura obbiettività: non ci siamo proprio. Cerco di spiegarmi brevemente. Prima di partire avevamo chiesto espressamente un tavolo da due, primo perché il mio carattere mal si adegua alla socializzazione con perfetti sconosciuti in particolar modo quando sono seduta a tavola per ingerire cibo, secondo perché non sai mai chi ti capiterà intorno al desco. Ebbene sorpresa della prima sera (e ahimè pure delle seguenti in un crescendo in stile Profondo rosso) ecco che il cameriere dopo inutili e laboriosi giri nella sala alla ricerca del fantomatico tavolo 448 ci porta davanti ad un tavolo da sei. Lascio immaginare la mia espressione. Cercate di focalizzare l’espressione incazzata di un toro a cui hanno appena schiacciato le palle e moltiplicatelo per 1000. Ok, ho respirato e poi ho pensato tanto da domani si cambia musica perciò facciamo buon viso a cattivo gioco. Ci sediamo e dopo una buona mezzora in cui la speranza di stare per i cavoli miei si riaccendeva ecco che si profilano all’orizzonte due figure in lento ma inesorabile avvicinamento. La coppia per metà giovane sposata da pochi mesi e appena tornata da un faticoso non che costosissimo viaggio in Africa per ammirare la fauna del luogo in assenza di gabbia. Lui sborone di prima categoria con l’aneddoto sempre in tasca e la presunzione di conoscere tutto e tutti. Soldi più che esibiti direi espressi a parole ma non per questo meno fastidiosi. In ogni caso non era ancora il peggio, per arrivare all’apoteosi bisognava arrivare alla terza sera quando al momento di entrare in sala scorgiamo altre due figure che occupavano per giunta i nostri posti. Chi erano? I Padani di Cantù: lei quarantenne con la faccia da insegnante elementare e lui da manovale. Simpatia sotto zero. Ironia sui sardi che si può rintracciare solo in quei film anni 80 che dipingono il sardo come pastore e le donne sarde coi baffi. La mia pazienza era già andata a quel paese ma per rispetto verso chi mi accompagnava ho tenuto duro anche la sera successiva fino alla fatidica frase razzista che era nell’aria da due sere. La signora comasca con quel fare da donna padana, ci esprime un interrogativo che neanche Bossi nei periodi di maggior celodurismo poteva elaborare con tanta fermezza e disprezzo. Al racconto della nostra esperienza con Costa nel mediterraneo con tappa anche in Turchia se ne esce con la seguente domanda: “Ma c’è puzza di marocchino in Turchia?”. Silenzio di tomba, boccone di cibo a metà strada tra il piatto e la nostra bocca o peggio ancora tra la bocca e l’esofago. Cosaaaa??? Ma non finisce qui perché c’è stata anche la ricca argomentazione riguardante sempre la suddetta puzza di cui sarebbe invasa la Tunisia e il pavimento della Tunisia, a loro dire scivoloso di sporcizia tunisina, marocchina, africana. Potevo davvero trascorrere un’altra amena serata in codesta compagnia? No e infatti proprio grazie a questa importante decisione vi posso parlare anche del terzo ristorante “a gratis”: il Seaview Cafè che abbiamo frequentato assiduamente per le successive tre sere visto che le nostre richieste al caposala di avere il nostro tavolo da due sono state declinate senza possibilità di appello nonostante la costante presenza di un tavolo da due sempre vuoto. Questo per me rappresenta un grosso neo nell’organizzazione insieme alla poca conoscenza dell’italiano da parte del personale di sala ma soprassediamo. Il Seaview è un vero e proprio ritrovo per lupi di mare sia per l’aspetto vagamente simile ad uno di quei locali che si possono trovare in qualche paese dimenticato da Dio affacciato sulla costa atlantica sia per il fortunale che accoglie gli avventori all’uscita nel ponte esterno che permette di accedere al locale. Ok che siamo in Norvegia ma un freddo così intenso per venti metri di strada mi pare eccessivo. Purtroppo non esiste altro modo per raggiungere il bar perciò armatevi di sciarpe e giacconi e vi prometto che ne uscirete contenti. Io almeno ero felicissima visto che capitando alle 21 sapevo che sarebbe stato poco frequentato visto che i turni di cena sono alle 18.30 e alle 20.30. Eravamo sempre pochi e si stava da Dio con un sandwich nella destra e una fresca Corona nella sinistra. Per me il massimo. La pizza non è buona e la pasta non l’ho mai provata.

Ultimo discorso per la colazione. Niente da dire, tutto perfetto abbondante e soddisfacente. Bella anche l’idea di obbligare la gente a lavarsi le mani col detergente prima di entrare nei luoghi di ristoro.

Bevande: anche in questo caso la pubblicità non è stata ingannevole. Bevande fresche sempre a disposizione: l’acqua ottima e deliziosa non come quella schifezza al sapore di piccolo chimico di Costa Crociere, the freddo che non sapeva di molto, limonata buona. Il the caldo era sempre e solo Lipton, non il massimo ma ci si può accontentare.

Animazione: non pervenuta perciò fantastica. Nessuno ti rompe per partecipare ad attività ludiche e tu puoi credere per più di un momento di essere in un comune albergo di lusso senza quella sensazione fastidiosa da villaggio vacanze che fa rimbombare le pareti a ritmo di salsa e merengue.

Spettacoli: i primi tre li ho saltati per mancanza di entusiasmo, gli altri quattro li ho visti e ne sono rimasta piacevolmente colpita, soprattutto la serata degli Abbamax è stata favolosa, straordinari e perfetti nelle cover del celebre gruppo scandinavo. La direttrice di crociera Anna era simpatica ma parlava solo in inglese così per noi italiani c’era un certo Andrea, un siciliano che conosceva meglio lo spagnolo dell’italiano e così tutto sommato ho capito di più dal mio poco inglese che dalle sue strampalate traduzioni.

Tappe: Oslo, Stavanger, Bergen, Geiranger e Alesund. I luoghi sono di una bellezza che toglie il fiato. Tornando indietro eviterei di acquistare l’escursione ad Alesund che può essere girata tranquillamente senza guida. In effetti questa è stata la tappa più deludente sia per la guida (un italiano ancora mezzo fatto dalla sera prima che non riusciva ad articolare le parole figuriamoci le frasi) che per i posti (acquario orrendo e viste panoramiche da immaginare vista la nebbia). Oslo bella con tutto il suo verde e le casette con l’erba sui tetti, il museo delle navi vichinghe (poche ma davvero affascinanti per chi ha un debole per i vichinghi come me) e un parco meraviglioso con delle sculture che raccontano la storia dell’uomo grazie alla maestria del loro creatore Vigeland, un artista norvegese dallo stile inconfondibile. Stavanger molto carina con le sue casette di legno e il villaggio vichingo dove una ragazza vestita con abiti di foggia medievale ci ha spiegato nella sua lingua gutturale tutta la vita che si svolgeva in quei luoghi a partire dal IV secolo. Bergen è assolutamente da visitare senza guida sia perché un autobus (gratis) porta in centro sia perché allo sbarco vi forniscono di una cartina molto dettagliata che permette di girare la città senza paura di perdersi. Personalmente ho preso il battellino che porta all’acquario e ne sono rimasta totalmente conquistata: mai visto un acquario più ricco e organizzato bene. Non ho resistito neanche a infilare la mano nella vasca di pesci con la bocca a ventosa che ti baciano la mano e si fanno accarezzare. Mi è dispiaciuto che la nave ripartisse così presto perché Bergen è senza ombra di dubbio la città che merita di più tra quelle proposte, sarà per il suo aspetto così europeo o per il fascino che emana dalle sue belle vie ma è davvero bellissima. Geiranger invece va fatta con la guida perché è solo un paese di poche anime, il suo fascino sta nelle vedute panoramiche e per poterle ammirare vi è l’assoluta necessità di un pullman che ci porti in alto tra i ghiacciai (assolutamente da dimenticare la visita al piccolo museo del luogo, decisamente inutile così come il filmato che fa vedere il passare delle stagioni).

Per quel che riguarda i prezzi delle escursioni, diciamo che siamo nella media di una nave da crociera: alti. Tra l’altro non c’è molta scelta per chi conosce solo l’italiano, infatti le più interessanti sono tutte in lingua inglese ma tutto sommato siamo sempre cento gradini sopra le escursioni farlocche di Costa.

Cabina: noi abbiamo scelto la cabina col balcone ed è stato come risorgere a nuova vita dopo le due claustrofobiche esperienze in cabine interne. Le dimensioni sono enormi e c’è posto sufficiente per due valigie. Il cameriere è stato bravissimo e ha sempre rispettato il nostro casino razionale nel senso che ha pulito il bagno, rifatto il letto e non si è mai permesso di toccare le nostre cose a differenza delle cameriere Costa. E’ stato poi unico ammirare i tramonti delle 22.30 di notte e le albe delle 4 del mattino. Un’esperienza impossibile da raccontare, bisogna viverla.

Conclusioni: Royal Caribbean è davvero il massimo tra le compagnie di crociera, sia per i prezzi (senz’altro i più bassi) che per la qualità. L’organizzazione è come un orologio svizzero e c’è sempre qualcuno alle informazioni che cercherà di aiutarvi come meglio può anche se ciò che stupisce è che sono più disponibili i dipendenti che non hanno la bandierina italiana nella targhetta delle lingue conosciute di quelli che in teoria dovrebbero essere le tue ancore di salvezza. Nota di merito per una ragazza brasiliana che ci ha sempre aiutato nonostante dicesse di non essere molto brava a parlare in italiano, invece è stata bravissima simpatica e professionale. Consiglio a tutti di sforzarsi di imparare almeno qualche frase in inglese perché è veramente l’1% del personale che conosce la nostra lingua e tutti ma proprio tutti vi si rivolgono in inglese con la conseguenza che spesso si rimaneva come stoccafissi a cercare di capire cosa ci stavano chiedendo.              

martedì 7 agosto 2012

0 Killshot (2008)

Trama: Carmen e Wayne Colson sono una coppia sposata da quindici anni ma in crisi ormai da tempo. Entrambi lavorano nel settore immobiliare: lui è un muratore e lei un agente immobiliare. Un giorno Wayne vestito in giacca e cravatta per un colloquio di lavoro viene scambiato dai due killer Armand e Richie Nix per un ricco imprenditore e da lì inizia un incubo per lui e la moglie, scampati per miracolo a morte certa. I due però hanno visto in faccia i due sicari e questi ultimi per evitare denunce a loro carico decidono di braccare i due malcapitati per eliminarli definitivamente.

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Un thriller senza ritmo è come un tetto senza muri portanti: crolla inesorabilmente. E’ evidente che non può bastare la faccia gonfia e vissuta di un Mickey Rourke per migliorare la situazione o la presenza di un’attrice come Diane Lane che mastica thriller praticamente da tutta la sua carriera. Manca lo stimolo ad andare avanti con la visione per sapere cosa succederà perché tutti ovviamente sappiamo che la vicenda avrà il più classico degli happy end con la morte dei cattivi e la salvezza dei buoni grazie ad un’ultima pallottola vagante e salvifica. Ma quando lo capiranno sia i registi che gli sceneggiatori (in questo caso nell’ordine John Madden e Hossein Amini) che siamo stufi di sorbirci lo stesso brodino allungato da dieci anni a questa parte?

La tensione manca totalmente, anche perché non ci troviamo di fronte alla classica coppia di semplici esseri umani sprovveduti in quanto Carmen e Wayne sono entrambi pratici di fucili da caccia, di cui hanno due esemplari sia in casa che nel furgoncino. Non ci si può immedesimare, ma solo assistere ad un veloce e piatto spettacolo pirotecnico che porta noi spettatori fino ai titoli di coda. Si intuisce che nelle intenzioni dello sceneggiatore c’era probabilmente la volontà di dare spessore ad Armand, mezzo sangue non del tutto privo di valori anche se incattivito dalla perdita del fratello più giovane durante una sparatoria. Però tutto questo interesse viene solo accennato di tanto in tanto come se fosse solo un abbozzo di idea e non un elemento portante di tutta la trama. Stesso discorso per quel che riguarda la crisi di coppia tra i due coniugi: banale come è tipico delle produzioni americane e del tutto insignificante ai fini del racconto. Cosa dire poi della giovane (ma non tanto giovane) stella di Hollywood Joseph Gordon Levitt? Beh recita bene la parte del delinquentello schizzato e fuori di testa ed è forse l’unico che riesce a movimentare un po’ le acque stagnanti di un film con le ruote sgonfie.

VOTO 5,5

lunedì 6 agosto 2012

0 Disturbia (2007)

Trama: Kale è un ragazzo uscito miracolosamente illeso da uno spaventoso incidente che solo un anno prima ha visto morire il suo amatissimo padre. La sua allegria e spensieratezza sembrano essersi esaurite tanto da spingerlo ad aggredire il suo professore di spagnolo, colpevole di aver fatto menzione di suo padre con l’indelicata frase “cosa penserebbe di te tuo padre?” in seguito ad un’interrogazione andata male. La conseguenza di questo gesto è una cavigliera elettronica fornita dalla polizia che proibisce a Kale di allontanarsi da casa sua costringendolo di fatto agli arresti domiciliari per tre mesi. In tutto questo tempo Kale viene a scoprire tutto un mondo al di fuori della sua finestra, un mondo fatto di tradimenti, abitudini consolidate, belle ragazze ma anche di pericolosi assassini…

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Prodotto da Stephen Spielberg il film si presenta come il più classico dei thriller giovanilistici anche se prende ampio spunto dal celeberrimo La finestra sul cortile di Hitchcock (1954) , tanto da essere andato incontro ad una vera e propria accusa di plagio…del resto come poter ignorare le analogie nella trame dei due film? Là avevamo un grandissimo James Stewart costretto su una sedia a rotelle per una frattura alla gamba, mentre qui il protagonista è il giovane Shia LeBoeuf, al suo primo ruolo importante. Entrambi comunque vivono seppur per motivi diversi la stessa situazione di segregati in casa e entrambi scelgono come attività di svago l’osservazione dei vicini di casa, fino a quel momento semplici elementi di arredo nella vita sorniona del quartiere.

In Disturbia la tensione è qualcosa che viene fuori molto in ritardo sul ruolino di marcia del film che tende per molti versi a gigioneggiare nella descrizione del cazzeggio di Kale, fatto inizialmente di XBOX, ITUNES e junk food e poi di qualcosa di più morboso ma allo stesso tempo stranamente affascinante (proprio perché proibito dal senso comune) ossia l’osservazione delle abitudini dei vicini attraverso binocoli di ogni forma e misura. A questo stravagante hobby prendono piano piano parte anche due personaggi che in realtà potrebbero distrarsi in mille modi diversi potendo usufruire della più assoluta libertà, la bella Ashley (Sarah Roemer) e Ronnie, il migliore amico di Kale. Entrambi decidono di prendere parte al curioso tentativo di investigazione da parte di Kale nei confronti del misterioso vicino Turner, aiutando l’amico non che boyfriend a mettere insieme varie prove grazie alla possibilità di potersi muovere liberamente e di poter comunicare tramite cellulare.

Le cose si fanno maledettamente serie negli ultimi venti minuti di film ed è lì che il film diventa tutto sommato abbastanza lineare nel suo svolgimento: falso allarme, polizia scettica, killer che si vendica cercando di uccidere il ficcanaso, il ficcanaso entra nella casa degli orrori trovando mille cadaveri, poliziotto che muore, uccisione fortunosa del killer e lieto fine. Questo in realtà non disturba lo spettatore meno esigente ma potrebbe in effetti risultare abbastanza monotono per chi è un cultore del genere che troverà tutto alquanto telefonato con le solite azioni incoerenti di tutti i protagonisti. Io l’ho trovato abbastanza noioso in molte sue parti e se vogliamo anche lacunoso. Non capisco perché fare un preambolo così serio (incidente e trauma familiare) se poi questo elemento è del tutto trascurato all’interno del racconto che è chiaramente interessato a descrivere il modo in cui Kale riesce nella sua immobilità a scoprire un serial killer al di là della sua finestra. Ecco allora gli ingegnosi marchingegni costruiti a tavolino dal protagonista, novello Mc Giver degli anni 2000, ecco il cellulare e la telecamere come strumenti essenziali per carpire segreti ma anche per tenersi in costante contatto. Un elogio all’elettronica che toglie totalmente spessore al film.

La recitazione è funzionale al film, tutti dicono esattamente quello che ti aspetteresti e rivestono ruoli tagliati con l’accetta: la bella, l’idiota, lo sfigato con il quoziente intellettivo altissimo, la mamma rompipalle e l’assassino con la faccia insospettabile.

VOTO 6     

 

venerdì 3 agosto 2012

0 Chiedi alla polvere (2006)

Il film è tratto dall’omonimo romanzo di John Fante e vede protagonisti due celebri nomi dell’attuale panorama hollywoodiano, Colin Farrell e Salma Hayek, nei panni rispettivamente dello scrittore di origini italiane Arturo Baldini e della cameriera messicana Camilla Lopez.

Ci troviamo davanti al classico film sentimentale che si sviluppa nella tragedia più assoluta, tanto da richiedere ai cuori più fragili un pacchetto di fazzoletti nelle battute finali. Su di me l’effetto è stato invece soporifero, ma dichiaro onestamente di non essere per niente attratta dal genere e di aver visto il film solo per dovere di cronaca, ossia per dare vita a questo post. Innanzitutto la storia non è particolarmente coinvolgente, pur apprezzando in genere i racconti in prima persona se fatti ovviamente come Dio comanda.

La vicenda si svolge negli Anni Trenta. Arturo Baldini si trasferisce dal Colorado all’assolata Los Angeles per trovare fortuna come scrittore. Il suo scopo è quello di scrivere un racconto che parli della società californiana poiché essa gli appare come una vera e propria fonte di ispirazione nonostante conduca le sue giornate quasi esclusivamente all’interno della sua stanza d’albergo che si affaccia su un’arida palma da dattero. Il destino e un nichelino gli permettono di conoscere una donna affascinante e intrigante, Camilla, una cameriera messicana che con fare beffardo gli serve un caffè orrendo. Da qui iniziano le schermaglie amorose tra due reietti in una società che respinge tutti coloro che non siano americani di nascita. I due continuano a litigare e allo stesso tempo a rincorrersi, in una storia d’amore che diventa credibile solo durante il soggiorno nella casa al mare dove in effetti la carica erotica tra i due protagonisti diventa incandescente per poi spegnersi inesorabilmente in una scena di sesso da lasciare indifferente anche il peggior maniaco. La malattia di lei che spunta fuori dal cilindro con un colpo da maestro, è qualcosa di così trito da farsi perdonare solo perché in effetti stiamo parlando della trasposizione cinematografica di un romanzo già esistente. Ma vogliamo parlare della morte di Camilla? Si può assistere a qualcosa di peggio solo nelle telenovelas anni ottanta che facevano impazzire la mia povera nonna. Abbraccio di lui alla donna morente che sino ad un secondo prima era pimpante come un grillo, morte di lei improvvisa alla fine dell’abbraccio. Mah!

Per quel che riguarda i due protagonisti devo dire che Colin Farrell non mi è mai piaciuto. Non amo quelle sopracciglia continuamente volte verso il basso a creare quell’eterna espressione da piagnone o il suo fare un po’ nevrotico da bambino a cui hanno appena rubato il giocattolo preferito. Recitazione senza verve e in fondo in fondo sempre uguale in ogni film che lo vede protagonista. Salma Hayek fa quello che sa fare meglio: la donna sudamericana con tutti i suoi cliché. Le riconosco l’enorme sensualità che diciamocelo chiaro tiene in piedi tutto il carrozzone. Nella scena di sesso avrebbe meritato un Antonio Banderas e invece gli è toccato uno smorfioso con quell’orribile neo sulla faccia. Poveretta.

VOTO 5,5  

giovedì 2 agosto 2012

2 La leggenda di Beowulf (2007)

Alla visione di questo film è seguito il grande rammarico per aver perso l’occasione di andare al cinema e godere del 3D sicuramente favoloso, come in tutte le produzioni di questo tipo firmate da Robert Zemeckis, maestro il cui nome dovrebbe essere ricordato per secoli e secoli amen. La motion capture ha già dato risultati “stravanati” (se mi si consente la licenza cagliaritana) sia con l’inarrivabile Polar Express che con il sontuoso A Christmas Carol, gioiello per gli occhi e per i cuori di chi ama da sempre quello che per me è il racconto natalizio per eccellenza.

Messe da parte le decorazioni natalizie ecco spuntare dal cilindro una leggenda nordica che prende le mosse da un poema sassone che vede protagonista Beowulf, eroe senza paura che viene chiamato in Danimarca per uccidere il mostruoso Grendel un demone dall’aspetto vomitevole che soffre per i rumori troppo forti provenienti dalla grande sala reale del monarca Hrothgar. Il mostro non è altri che il figlio di quest’ultimo e della bellissima e terribile creatura interpretata da Angelina Jolie, frutto di un amplesso nato per suggellare un patto tra l’uomo (assetato di gloria) e la “donna” desiderosa di mettere al mondo una creatura violenta e feroce. Beowulf riesce ad uccidere Grendel ma proprio quando sta per eliminare anche la pericolosa madre dell’ibrido, quest’ultima gli propone il solito patto: raggiungere la gloria in cambio di un figlio generato dai suoi lombi. Il giovane Beowulf, vinto dalla passione e dalla sete di potere accetta la tremenda offerta e così nasconde a tutti i suoi compagni e alla gente che lo acclama quello che è successo in realtà, raccontando di avere ucciso il mostro e vivendo così lunghi anni di serenità e gloria. Ma un giorno il suo stesso figlio, dall’aspetto di drago, esce dal suo antro per uccidere chiunque incontri nel suo cammino spingendo così Beowulf ormai anziano ad armarsi di nuovo della sua spada per eliminare definitivamente il mostro e di conseguenza anche la sua gloria, costruita sulla menzogna. L’eroe guerriero dopo evoluzioni di ogni tipo e sacrificando il suo stesso braccio, riesce nell’impresa scoprendo così nella morte del suo stesso figlio che sotto le spoglie del drago nascondeva un giovane forte e molto simile a lui. Anche per Beowulf giunge però il momento della morte ma non prima di aver ceduto la sua corona al suo compagno di mille avventure, il valoroso Wiglaf. Quest’ultimo però subisce anch’egli il fascino della misteriosa donna e così intuiamo che il ciclo continuerà all’infinito.

Come dicevo prima, il film è magnifico e lontano anni luce dal classico film di animazione rivolto ad un pubblico di minorenni. E’ infatti crudo sia nelle situazioni più sanguinose che in quelle diciamo sessuali, non che ci siano scene di copulazioni ma si fanno riferimenti sessuali ad ogni piè sospinto soprattutto nelle bellissime sequenze che si svolgono nella grande sala reale, tra uomini ubriachi di idromele e donne discinte con seni in bella mostra. Non manca neanche il nudo integrale (anche se sapientemente nascosto nelle parti intime) del protagonista, interpretato da un eccellente Ray Winstone.

Per chiunque subisca un po’ il fascino delle saghe nordiche il film piacerà da impazzire visto che tutto viene rispettato: abbigliamento fatto di pelli e armature pesanti, edifici fatti di legno e pietra, nevi perenni e un mare gelido che si increspa davanti ai nostri occhi, ricco di suggestioni e creature misteriose, per non parlare dei riti funebri con tanto di pira e di leggende cantate da bardi intorno a tavole imbandite di carni fumanti e bicchieri di idromele.

VOTO 9         

mercoledì 1 agosto 2012

0 The wrestler (2008)

Film premiatissimo, aggiungerei giustamente visto che ci troviamo davanti alla miglior prova dell’irriconoscibile Mickey Rourke, invecchiato ingrassato e capace di suscitare nello spettatore un misto di commiserazione e rammarico per la sorte toccata al suo personaggio e se vogliamo anche a lui, attore dimenticato da vent’anni ed ex sex simbol degli anni Ottanta.

In questo caso specifico i destini dei due personaggi sembrano intrecciarsi strettamente e ben si capisce come alla fine Rourke abbia incassato il Leone d’oro e ben due Golden Globe. Era nelle sue corde e lo si sente per tutta la breve ma intensa durata del film. Certo anche la prima scelta dello sceneggiatore Siegel era molto ben calzante: Nicolas Cage, un attore incredibilmente di talento e con la faccia da perdente ma con le palle. Ma dopo aver visto l’interpretazione di Micky Rourke capisco che nessuno avrebbe potuto interpretare nello stesso modo Randy "The Ram" Robinson, il wrestler del titolo, una leggenda dei ring degli anni Ottanta che ancora si esibisce su richiesta in serate organizzate per i vecchi fan del tempo. Randy, come ci spiega la voce fuori campo all’inizio del film, era un grande lottatore che aveva conquistato le prime pagine dei quotidiani sportivi dell’epoca, sia per la sua tecnica sia per tutte quelle gag che tanto facevano e fanno impazzire gli appassionati di wrestling. Ed è lì che scoppia l’effetto nostalgia al pensiero di tutti quei pomeriggi e quelle mattine a vedere gli incontri di wrestling trasmessi su Italia 1 o il leggendario Uomo tigre, vero eroe di noi bambini degli anni Settanta. In ogni caso The Ram ormai è un uomo solo, se si esclude la compagnia di Cassidy una spogliarellista che lavora nel locale in cui ogni tanto va a farsi una birra o i bambini che vivono vicino alla catapecchia dove trascorre le sue nottate tra anabolizzanti e giochi di wrestling su Nintendo. Ovviamente per vivere bisogna lavorare e così non facendo più parte del ranking mondiale, Randy è costretto a lavorare in un supermercato, celato tra altre persone comuni. Tutto cambia quando finisce per svenire, spezzato dalle porcate che continua a prendere per stare in forma e lì dopo un bel by pass la sua vita cambia, in lui sorge la paura di morire da solo e così cerca di far ordine nella sua vita, sopportando a fatica i calci in culo della vita.

Insomma un film che racconta lucidamente la parabola discendente di una persona un tempo famosa che diventa un essere umano con tante fragilità e insicurezze. Il mondo di Randy è il mondo della lotta libera, solo lì viene rispettato e si sente amato e apprezzato, la vita reale per lui non è altro che un insieme di delusioni e brutture: c’è la donna che ama che lo rifiuta perché lo vede unicamente come un cliente, il capo che non perde occasione per umiliarlo, la figlia che lo odia per essere stata trascurata per una vita. Lui cerca di rimediare a tutto ma basta un solo tassello fuori posto per fargli perdere la testa, rovinando ciò che di buono è riuscito a fare con i pochi mezzi a disposizione. Il tutto è drammatico e crudo, strazia i cuori più fragili e non dà nessun appiglio agli ottimisti, infatti la stessa conclusione del film lascia ben poco alla speranza: un volo dall’angolo del ring che suona forte come un salto verso la morte, un suicidio in grande stile, davanti ad un pubblico che lo acclama (ignorando i suoi problemi al cuore) e con lo sguardo triste di chi vede la sua vita senza più uno scopo per cui valga la pena vivere.

Ho trovato questo film splendido, con un montaggio spezzettato che ci accompagna nel racconto di un tempo brevissimo ma intenso, con i dialoghi giusti e un cast che riesce davvero a raccontare una storia molto realistica. Un plauso alla sempre brava Marisa Tomei, in questo caso spogliarellista e mamma che vive anche lei quella fase della vita in cui l’età la vede arrancare dietro le colleghe più giovani e più richieste, sempre alla ricerca di quella occasione che le permetta di cambiare la propria vita e quella del figlio. Brava anche la figlia tormentata interpretata da Evan Rachel Wood.

VOTO 8    

 

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