giovedì 28 giugno 2012

0 Adua e le compagne (1960)

 Un film meraviglioso e molto molto amaro. Il regista è Antonio Pietrangeli al quale avrei dato tranquillamente un Oscar per aver stigmatizzato in maniera delicata ma anche parecchio cruda la sorte delle “ragazze di vita”. Spesso nell’immaginario collettivo si pensa che la prostituzione sia qualcosa dei nostri tempi, una piaga che coinvolge le povere ragazze straniere che vengono costrette da squallidi papponi a fare il mestiere più antico e (ahimè) più richiesto del mondo. E invece, nonostante il cinema si presenti piuttosto edulcorato da questo punto di vista (almeno fino agli anni 70 se non si considerano i film di Pier Paolo Pasolini o i film del Neorealismo) e invece ripeto questo problema esisteva già e forse, anzi sicuramente, c’erano molti più uomini rispetto ad oggi che si recavano nelle case di tolleranza per soddisfare le proprie esigenze sessuali. A volte si parla con uomini anzianotti con dentiera incorporata e sputacchiera che si soffermano a raccontare, aggiungerei con più di un pizzico di malinconia, le esperienze gratificanti con le prostitute. Per gli uomini era un rito di passaggio dall’infanzia all’età adulta, dal seno della madre a quello di una puttana.

Ma di loro, delle prostitute cosa ne sappiamo? Non molto, ma Pietrangeli cerca di darci una sua opinione in merito, raccontando la storia di quattro donne, Adua, Marilina, Lolita e Milly che dopo la chiusura delle “case chiuse” in seguito all’approvazione della Legge Merlin, decidono di aprire una trattoria in campagna col proposito iniziale di continuare il mestiere ma stavolta senza padroni, usando come copertura proprio il ristorante. Però il tempo passa e le intenzioni cambiano: Adua si innamora di Piero un simpatico venditore di automobili, Marilina riabbraccia il bambino che da tempo aveva affidato ad una balia, Lolita continua ad essere la svampita della compagnia ma con il sogno di fare cinema e Milly inizia una relazione con Emilio, un bravo ragazzo sardo che intende sposarla. Le quattro però hanno stipulato una sorta di contratto non scritto col proprietario del terreno e della villa che pretende che le donne ritornino a svolgere il mestiere per potergli garantire entrate di un milione al mese. Nessuna di loro è intenzionata a cedere e Adua ormai disperata denuncia pubblicamente le intenzioni del vile uomo ma questo non fa che ritorcere la situazione contro le povere donne che vengono portate in carcere, schedate e le cui foto appaiono nel quotidiano della città. Questo sconvolge i piani di tutte e l’ultima sequenza ci mostra Adua, ubriaca, imbruttita che si aggira per i marciapiedi di città a vendere il suo corpo, nonostante avesse giurato di non finire mai come “quelle là”.

Insomma, niente lieto fine ma anzi un pessimismo cosmico che sembra voler dire: è inutile che tu voglia sollevarti e migliorare te stesso perché il marchio che hai addosso ti seguirà per tutta la vita. Non molto piacevole ma forse racconta la verità e questo fa male perché in fondo tutti noi che abbiamo visto il film un po’ ci abbiamo creduto che queste donne potessero realizzarsi completamente e vivere la loro vita come tutte le altre donne. Inutile dire che mi è piaciuta tantissimo l’interpretazione di Simone Signoret che presta il volto ad Adua, il personaggio più complesso e forse per questo il più bello. Un viso bellissimo, intenso, triste ma capace di illuminarsi con un sorriso. Una donna che si innamora dell’uomo sbagliato, che gli dà il suo cuore per vederlo poi calpestato ma che non perde la forza e tira avanti, prendendo in mano la situazione che le sue amiche non saprebbero mai affrontare da sole.  Troppo teatrale invece Emanuelle Riva (Mariolina), isterica e sopra le righe. Sandra Milo fa Sandra Milo, nel senso che non perde quella vacuità che si porta dietro da 80 anni, ma l’oca la fa benissimo.

Io il film lo consiglio veramente a tutti coloro che amano il buon cinema italiano, quello vero, quello che non parla di storie poco credibili ma che si sofferma sulla realtà e vuole raccontare la vita senza tanti giri di parole.

VOTO 10    

domenica 24 giugno 2012

0 Pensieri afosi e riflessioni sul pianeta Maschio

Ennesima giornata di caldo traumatizzante. Non spero più in un cambiamento climatico ma mi auguro seriamente di non schiattare sul bordo della mia fida scrivania anche se tutto sommato non sarebbe male crepare nel bel mezzo della scrittura di un post di questo tipo. Sarebbe un po’ come il mio biglietto di addio al mondo, un breve memoriale sulla mia visione del pianeta Uomo (nel senso stretto di bipede di sesso maschile) così da chiarire in via definitiva i miei pensieri al riguardo.

Tutto è partito da un pomeriggio di qualche giorno fa, quando il mondo ha iniziato a bollire nel caldo del fottutissimo Scipione. Presa da cazzeggio ho inserito, non sperandoci veramente, il nome di un tizio che ho frequentato anni fa e magia di Facebook è apparsa la foto di uno che assomigliava vagamente all’oggetto della mia ricerca ma nella sua versione anziana. Apro la pagina e continuo a ripetermi incessantemente: no no non è lui, impossibile, questo avrà 50 anni minimo, beccati il borsello da tedesco anni ‘70, guarda che torace carenato, no dai non può essere. Invece consultando brevemente le informazioni di base l’Uomo del monte Ha detto SI. La risata mi pizzicava la gola pronta a squarciare il silenzio del meriggio ma ancora non era finita perché scrutando nella bacheca ho scoperto nell’ordine che: è proprio diventato brutto come un culo, ha sposato la tizia che (per mia immensa fortuna) me l’aveva soffiato da sotto il naso con un sottile gioco di prestigio, linka le foto di Gesù e di Woytila e l’ha smessa finalmente con la sua prosa criptica. Non so se sia rimasto tirchio come allora ma potrei pensarlo visto l’abbigliamento da grandi magazzini.

Questo mi ha portato ad alcune riflessioni interessanti. Era il lontano 1996 quando lo conobbi nel pieno di una serata in discoteca: faccia pienotta (adesso sembra il testimonial di una brutta malattia poraccio), pizzetto da acchiappo, camicia di seta blu e sguardo profondo. Ricordo che non mi aveva comunicato granché ma quella sera in vena di follie da 18enne finì per dargli il numero di telefono convinta che fosse chissà che pezzo da 90. L’indomani a scuola passai tutta la mattina a scrivere il suo nome nel quaderno di matematica per poi contare le ore che mi separavano dalla fatidica telefonata (che idiota a pensarci adesso). Questa arrivò e naturalmente seguì il classico primo appuntamento dove scoprì che era un semplice studente di ragioneria senza un passato veramente interessante nonostante quella barba non fatta da “sintomatico mistero”. Il suo grande segreto stava nel fatto che già frequentava da un bel po’ un’altra ragazza ma come tutti gli uomini dai 15 anni in su disse anche che ormai non nutriva alcun interesse per lei. Così cominciarono i nostri 4 mesi assieme. Fu un periodo strambo. Era rassicurante poter dire alle amiche che avevi il ragazzo ma poi sto figlio di buona donna non mi accompagnava mai da nessuna parte e così tutto sommato le nostre uscite si riducevano ad un paio di pomeriggi alla settimana. Si parlava un sacco ma sempre di robe assurde di cui non mi importava niente così come delle sue lettere consegnate a mano che presentavano nell’ordine: un disegno inquietante (a volte lande desolate, a volte lapidi), lunghe pagine scritte in un italiano d’altri tempi con parole scelte a casaccio e varie parabole estrapolate da qualche libro di Borges o Hesse. Il massimo vero? Il peggio è che le dovevo leggere in sua presenza e poi dire quello che avevo capito, che poi in definitiva rappresentava il tema della serata. Lo vedevo arrivare con quel suo Zip nero con l’adesivo Lucky Strike, col chiodo nero e gli occhiali da sole e subito sorridevo. Ero scema è evidente. Lui invece era molto furbo e come ho detto più sopra parecchio tirchio: non aveva mai sigarette figurarsi i soldi per un caffè…non credo che abbia mai offerto qualcosa. Memorabile la volta che in pizzeria avevamo dovuto prendere una pizza in due o la volta che per il compleanno mi ha regalato Cujo di Stephen King con tutte le pagine che si staccavano. Insomma ho sempre pagato io oppure facevamo a metà. Di me non gliene fregava fondamentalmente un cazzo ma ero convinta che avrebbe cambiato idea. Invece arrivò il famoso pomeriggio in cui mi disse con aria mesta che non eravamo fatti per stare insieme ma che potevamo essere buoni amici. La presa per il culo era tale che mi ricordo di avergli lanciato contro un braccialetto di bigiotteria e di aver pianto un bel po’ una volta tornata a casa.  Non ero dispiaciuta per il fatto in sé (mi faceva pure cagare come baciava e odiavo la puzza di tabacco rancido che si portava dietro, per non parlare dei chili di burro cacao e delle labbra tutte screpolate, le dita a punta…insomma un disastro), più che altro mi rompeva essere stata scaricata, soprattutto da uno come lui.

E come sempre accade quando diventi dipendente da qualcuno o quando ti convinci che sia tutto un errore, abbiamo continuato a frequentarci per ben tre anni. Amici veri stavolta. Poi è arrivata la classica botta che non ti aspetti: l’innamoramento del tuo migliore amico per una tizia conosciuta nel suo quotidiano. Tu non sai chi è ma sai che hai le ore contate. Infatti gradualmente iniziò a farsi sentire di meno per poi, su mia insistenza, confessarmi che aveva conosciuto una che non avrebbe mai capito la nostra amicizia e che lui non voleva far soffrire, così ciao ciao e tanti saluti.

Questo è un piccolo esempio di come sono stronzi gli uomini e di come sono stupide le donne. Ok che eravamo ragazzini ma che vuol dire? Alla fine sempre stronzo rimane. Chissà se pensa ancora che le donne sono fatte solo per procreare. Questa era un’altra delle sue perle…beh evidentemente la sua di donna ha avuto una sorte diversa visto che non c’è traccia di figli. Alla fine comunque tutto è andato bene perché credo che sarei impazzita a stare con uno così. Così esteticamente piatto. Un uomo che voleva fare il filosofo su una strada di campagna dove avrebbe riunito intorno a sé un accolita di discepoli…questo era il suo sogno oltre a moltiplicare i pani e i pesci e camminare sull’acqua. Alla fine invece fa qualcosa di molto più prosaico con un casco di protezione in testa. Rivederlo in queste sue nuove vesti mi ha fatto molto ridere e mi ha reso molto più felice della mia vita. Non che io abbia più pensato a lui ma proprio rivedendolo con questi suoi nuovi capelli sale e pepe mi ha restituito tutti quei giorni persi a piangermi addosso.

 

sabato 23 giugno 2012

1 Telefilm anni 80: quando la televisione ci rendeva felici

Essendo nata nel 1977 ho avuto la fortuna di potermi sparare in vena una massa indefinita di telefilm anni 70 e 80 visto che in quell’epoca Fininvest offriva un ventaglio di scelta enorme, non come ora che il massimo che ti consente è un overdose di La signora in giallo, Csi New York, Los Angeles Miami, Sticavoli oltre che il sempre imperdibile omino coi baffi e basette protagonista di Walker Texas Ranger che ormai presumo viaggi con dentiera e orinale a portata di mano.

La televisione un tempo ci coccolava da mattina a sera, dall’inverno all’estate e seppur con qualche acciacco c’erano dei telefilm che seppure mandati in onda a ciclo continuo per dieci anni di seguito rappresentavano per noi bambini di quegli anni un appuntamento imperdibile, una ricorrenza da rispettare come Natale e Pasqua. Io e mia sorella per esempio amavamo l’estate non tanto per il mare e i gelati quanto per la possibilità di rivedere dalla prima puntata La casa nella prateria, un telefilm ambientato nell’America di fine Ottocento che vedeva al centro la mitica famiglia Ingalls, sempre alle prese con qualche gatta da pelare. Ci piaceva eppure andavamo alle elementari massimo alle medie. Ora non riesco proprio a immaginarmi uno di 10 anni che prende e si mette davanti alla televisione a guardare gente con le braghe lunghe e i basettoni. Ci voleva amore e passione per le storie semplici ma allo stesso tempo emozionanti. Avevamo anche le nostre puntate preferite (mi ricordo tra le tante la fiera del paese con le mele caramellate che ci facevano sempre venire l’acquolina in bocca nonostante non le avessimo mai mangiate in vita nostra). Riuscivamo in qualche modo a immedesimarci nei personaggi e nelle storie e questo ci porta ancora adesso a ricordare con piacere quelle mattine afose sul divano di casa con pacchetti di patatine San Carlo e pane pizza, con gli occhi grandi come case e l’impazienza di veder finire la pubblicità per sentire la mitica sigla di testa che dava inizio alle nostre mattinate no stop. Dopo guardavamo Fantasilandia ed era come entrare in un mondo incantato fatto di ambientazioni hawaiane e desideri che si avveravano grazie a Mr Roarke, una sorta di mago in abiti da gelataio.In campo magico poi non mancava Strega per amore, vero must di quegli anni. Divertente, molto retrò e con una sigla indimenticabile. Mi ricordo poi che verso l’ora di pranzo passavamo direttamente sulla Rai per vedere (a volte anche in prima visione) l’altro mito di quel decennio, cioè Saranno Famosi. Quella era emozione pura. Siamo cresciute con il mito di Leroy e le lezioni durissime della tostissima signorina Grant che introduceva la puntata con tutta quella filippica sul fatto che ci volesse sudore e fatica per raggiungere il successo. Era anche questo un telefilm che insegnava tante cose ma rivisto a distanza di anni non ha retto il passare del tempo e così ecco che è sparito in via definitiva dai nostri palinsesti. I telefilm da maschi non ci piacevano e quindi non li guardavamo mai: A-team, Magnum PI, Supercar e via dicendo. Io personalmente impazzivo per le sit com: i Robinson, i Jefferson, Webster, Arnold, Genitori in blue jeans, Super Vicky e mille altri. Li ho visti e rivisti tutti perché mi facevano sognare e divertire e accompagnavano tutti i pomeriggi dopo i compiti di scuola e Bim Bum Bam. Sono stata capace anche di vedere tutta le stagioni di Kiss me Licia, Love me Licia, Teneramente Licia, Cri cri, Arriva Cristina e tutta quella roba indecente con gente con parrucche di colori impossibili e con le voci doppiate. La televisione era una componente imprescindibile delle nostre giornate, non potevamo vivere senza anche perché poi uno dei piaceri maggiori stava nel fatto di commentare i vari episodi con chi condivideva le nostre stesse passioni per esempio i compagni di classe. Grazie a giornaletti come Cioè a volte trovavamo anche le classiche figurine o poster da appiccicare al diario o appendere nelle pareti immacolate delle nostre stanze. La televisione la si viveva a 360 gradi sia col sole che con la pioggia ed era impossibile uscire quando c’era un episodio di un telefilm che seguivamo anche perché non tutti avevamo il videoregistratore.

Ora che ho Sky ho la possibilità di rivedere su un canale le serie che hanno fatto la storia della TV ma non riesco ad appassionarmi proprio perché ho perso lo spirito di quegli anni. Ora è una visione solitaria e triste, il bello si è perso. Prima era una visione condivisa legata a momenti belli e intimi, come quando durante la puntata dei Robinson che andava in onda all’incirca verso le 18,30 mia madre afferrava i ferri gialli per fare la maglia e fuori magari c’era freddo. Vedevo quel gomitolo che diventava sempre più piccolo e sapevo che ero a casa, in famiglia, felice, con la stufa accesa e il telecomando enorme del Telefunken su un bracciolo del divano.  

  

   

mercoledì 20 giugno 2012

0 La bambina che amava Tom Gordon–Stephen King (1999)

La protagonista del romanzo è la piccola Trisha, grande tifosa dei Red Sox e fan accanita del grande lanciatore Tom Gordon. La bambina in gita con la madre e il fratello maggiore finisce per perdersi in un grande bosco del New England da cui riuscirà a uscirne solo dopo più di una settimana, trascorsa nel terrore di essere uccisa da un essere misterioso che continua a braccarla giorno e notte.

Trisha riesce a sopravvivere grazie ad espedienti di ogni genere. Fisicamente l’aiutano gli insegnamenti della madre che la spingono a cercare bacche e felci commestibili con le quali nutrirsi (una volta che ha finito le sue scorte da pic nic consistenti in un sandwich al tonno, dei Twinkies e delle patatine fritte). Spiritualmente invece trae la forza necessaria a non crollare dalle cronache delle partite dei Sox che continua a seguire attraverso il suo fedele walk-man, unica voce nel silenzio secolare del bosco. Quando poi la ragione sta per abbandonarla trova conforto in illusioni dal sapore fanciullesco, come la compagnia immaginaria ma anche molto reale di Tom Gordon che con poche parole la spinge a continuare a resistere perché al nono inning Dio la aiuterà. Trisha ama Tom Gordon in un modo viscerale che va oltre le sue qualità di lanciatore, egli infatti è l’essenza stessa della freddezza prima di un lancio ed è proprio la calma e la fiducia in se stessa che aiuteranno la bambina a salvarsi da morte certa.

Il romanzo è una piccola favola horror. Una rivisitazione in chiave Kinghiana della fiaba di Cappuccetto Rosso e il lupo cattivo dove la bambina riesce a spuntarla grazie alla sua astuzia oltre che all’aiuto propizio e insperato di un cacciatore (in questo caso un bracconiere dall’aspetto poco invitante e ben poco prode). Tutta la storia riflette i pensieri di una bambina di dieci anni, anche se a volte esce prepotentemente la vena mistica di Stephen King, in particolare nella visione delle tre divinità che esternano concetti a dir poco complessi per una ragazzina delle medie (sembra quasi più facile credere che l’apparizione sia reale piuttosto che il frutto dei deliri di Trisha). Lo scrittore però nella sua grandezza riesce con incredibile facilità a farci tornare bambini e a condividere i pensieri e le paure che attanagliano la povera Trisha, pensieri di nostalgia per la quotidianità data per scontata e invece così preziosa, il ribrezzo per aver mangiato un pesce crudo (e difatti Trisha giura a se stessa che mai ne farà parola se mai si salverà), l’attaccamento morboso per oggetti che per un bambino sembrano essere carichi di potere di difesa e protezione come il walk-man e il cappellino con la firma ormai sbiadita di Tom Gordon. Leggendo poi come Trisha finisce per perdersi e allontanarsi sempre più dalla civiltà mi ricorda molto il modo in cui a volte in qualche città sconosciuta invece di tornare sui miei passi finisco per cambiare strada con la certezza che prima o poi rispunterò dalla parte giusta.Trisha si allontana per non essere vista mentre fa la pipì ma in realtà si perde anche per allontanarsi anche solo per un attimo dalle continue discussioni tra sia madre e suo fratello Pete. C’è quindi anche una riflessione sociologica sulla situazione difficile che vivono i figli dei separati. Trisha sa che sua madre è una rompiscatole con la fissazione per le gite fuori porta ma l’accontenta perché sa che quello è il suo piccolo sacrificio per far felice la madre, come è ben consapevole del problema di alcolismo che affligge il padre ma nonostante il suo alito di birra sa che è la persona che ama più al mondo e quella che condivide con lei la passione per il baseball. Tutto questo trova ampio spazio nella vicenda che può essere letta (come spesso accade nei romanzi di King) in due modi diversi: come vicenda reale di una bambina che si perde nel bosco e sopravvive alla fame, alla sete e ad un orso inferocito, oppure come horror con la presenza di esseri sovrannaturali che inseguono o osservano la bambina in attesa di farla propria. In ogni caso sembra evidente la metafora del rito di iniziazione che porta Trisha dalla fanciullezza all’età adulta.

Un romanzo estremamente versatile pur nella sua almeno apparente semplicità.

VOTO 8  

0 La coda dello scorpione (1971)

Ci troviamo davanti ad un classico film thriller degli anni ‘70, denso di sangue color ciliegia, belle donne, qualche scena di nudo e assassini mascherati pronti a far tremare le vene ai polsi attraverso apparizioni improvvise di lucide lame di coltello. Il regista è Sergio Martino, esperto nel cinema di genere essendosi cimentato nel western, nel “poliziottesco” e nella commedia sexy oltre che nel thriller all’amatriciana (come in questo caso). Il suo modo di raccontare attraverso la macchina da presa riprende un po’ i cliché dell’epoca: intensi primi piani, zoomate in avanti e indietro, sequenze che partono dall’inquadratura di un particolare (vedi il telefono che squilla) per poi ampliare il campo visivo.

 

Lo spunto iniziale è molto lineare: un ricco uomo d’affari muore in un incidente aereo, la moglie fedifraga incassa 1 milione di dollari di assicurazione ma viene brutalmente uccisa da un misterioso killer che inizia ad eliminare sistematicamente tutti coloro che sapevano dell’eredità della vedova. La storia si svolge curiosamente ad Atene e vede protagonista la polizia del luogo, l’Interpol, un agente assicurativo e un’affascinante corrispondente francese.

La storia a dirla tutta si sviluppa in modo piuttosto caotico e confusionario rendendo difficile per lo spettatore capire le dinamiche (spesso illogiche) che guidano le azioni dei protagonisti. Tutti agiscono in modo contrario alla razionalità generando più sorrisi che brividi nel pubblico che certo avrebbe meritato un trattamento migliore davanti ad un film che si definisce giallo. Persino le uccisioni non sembrano avere molto senso nonostante le spiegazioni finali del killer la cui identità c’è chiaro solo verso le battute finali del film. Il suo movente è veramente quanto di peggio offra un giallo Mondadori e il nascondiglio che sceglie per il gruzzolo ci ricorda più un film di pirati che un thriller. Detto questo il film pur nelle sue carenze si lascia guardare soprattutto dagli appassionati della cinematografia di serie B degli anni ‘70 e anche da coloro che ne apprezzano gli spunti (non volutamente) comici.

VOTO 6

mercoledì 13 giugno 2012

0 …Altrimenti ci arrabbiamo! (1974)

Ben (Bud Spencer) e Kid (Terence Hill) sono due amici con la passione per i motori che grazie alla vittoria in una gara di velocità riescono ad aggiudicarsi una Dune Buggy rossa con la cappottina gialla…peccato che entrambi vogliano avere l’uso esclusivo della macchina, perciò decidono di giocarsela a salsiccia e birra ma vengono interrotti dagli scagnozzi di un Boss del luogo che distruggono il ristorante in cui stanno mangiando e soprattutto la loro ambitissima macchina. Da questo momento i due decidono che la loro unica priorità è quella di riavere una Dune Buggy esattamente identica a quella vinta ma il Boss non è d’accordo e tenta di eliminarli in ogni modo finendo però per arrendersi dopo decine di tentativi andati a vuoto (e soprattutto dopo la distruzione del suo amato ristorante).

La pellicola scorre via come un buon boccale di birra ghiacciato in una giornata particolarmente calda. I protagonisti riescono come sempre a rendere le loro gag divertenti e mai monotone: fantastica tutta la sequenza al luna park tra gare agli autoscontri e prove di forza che inevitabilmente vedono primeggiare l’enorme Bud, sornione e allergico al fumo di sigaro (a questo proposito c’è da premiare un atteggiamento salutista ante-litteram perché a memoria d’uomo non si è mai vista la coppia dei nostri beniamini fumare una sola sigaretta). Da primato anche la sfida a birra (spumosissima e bollente a prima vista) e salsicce (in realtà wurstel) che suscita una fame atavica in qualsiasi cultore delle gesta di Bud Spencer e Terence Hill (vedi la fagiolata in Lo chiamavano Trinità).

La trama è spassosissima e semplice, carina anche l’idea di ambientare la storia nelle vicinanze di un Luna Park teatro come ho già detto di innumerevoli e riuscite gag. Inquietante la figura del sicario più simile ad un vampiro che ad un essere umano e particolarmente riuscita la parte del sobillatore tedeschen che con i suoi NEIN NEIN NEIN suscita più di una sana risata. L’ambientazione infine è sempre esterofila anche se le uniche indicazioni che ci vengono fornite sono solo alcune scritte in spagnolo e alcuni grattacieli all’orizzonte.

Ritengo questo film uno dei migliori della coppia.

VOTO 7

lunedì 11 giugno 2012

0 Marpiccolo (2009)

 Film italiano di matrice sociale, diretto da Alessandro Di Robilant e ambientato a Taranto. Il protagonista è Tiziano, un ragazzo che vive in uno dei quartieri più degradati della città pugliese e che è già parte integrante della malavita locale, gestita e capeggiata dal giovane boss Tonio (un irriconoscibile Michele Riondino che attualmente presta il volto al Giovane Montalbano). Tiziano frequenta poco la scuola, ha una ragazza che non condivide le sue scelte di vita ma che nonostante tutto lo ama e ha anche una famiglia che sembra non accorgersi fino in fondo della brutta strada che lo sta inesorabilmente inghiottendo. Infatti la madre lotta le sue battaglie quotidiane con onestà e coraggio mentre il padre è un fallito che conduce le sue grigie giornate tentando la fortuna alle macchinette, dissipando così i pochi guadagni della sua famiglia. Tiziano vorrebbe scappare da tutto questo ma gli strumenti che adotta finiscono per farlo precipitare in una spirale di ricatti e minacce che lo conducono infine in prigione, reo di aver sparato ad un uomo su mandato del boss Tonio. E’ proprio la prigione però che gli consente di guardare più in alto, al di sopra della vita a cui è convinto di essere destinato e che gli fa prendere infine la decisione di lasciare la sua città e ricominciare altrove con la sua ragazza, unico sprazzo di luce in tunnel apparentemente senza uscita.

Il film scorre via veloce in poco più di un’ora ma il tempo a nostra disposizione è più che sufficiente per prendere contatto con una realtà cruda, violenta e purtroppo amaramente reale. Difficile forse per noi che viviamo in “case di mattoni” capire che significa aver a che fare con la legge del più forte, con l’incertezza del domani e con la malavita che governa il quartiere dove vivi. Tiziano non è un cattivo (e in effetti hanno scelto un attore, Giulio Beranek, con un viso molto solare e aperto lontano dal classico brutto ceffo di periferia) ma solo un ingenuo che si crede più forte del più forte e che finisce per pagarla. Ama sinceramente la sua ragazza e la sua famiglia (un po’ meno il padre assente e smidollato), rispetta la professoressa che continua a sperare che lui possa cambiare e pur sentendosi parte di un sistema sbagliato, continua imperterrito a cadere quasi cercando di farsi male il più possibile. Certo, risulta difficile credere a 6 mesi di carcere per due omicidi così come alla bonarietà di una guardia carceraria (interpretata da un sempre bravo Giorgio Colangeli, stavolta dall’altra parte delle sbarre dopo la buona prova offerta in Aria salata) che si barcamena per insegnare la strada buona a minorenni dalla fedina sporca. Ci sono molti luoghi comuni in Marpiccolo, così come è d’uopo aspettarsi da un film che racconta la periferia ma tutto sommato non svalutano il valore finale del film.

Ottima poi la scelta di non scegliere come lingua ufficiale del film il dialetto visto che questo avrebbe tagliato via gran parte del pubblico. Il pugliese è giustamente presente ma inframezzato all’italiano così da poter godere appieno dei dialoghi di cui il film è ricco.

VOTO 6,5  

sabato 9 giugno 2012

0 La vendetta di Siviglia–Matilde Asensi

Dopo il romanzo picaresco Terraferma la scrittrice spagnola decide di riportare in scena l’eroina Seicentesca Catalina Solìs con buona pace di tutti coloro che ne hanno apprezzato le gesta sotto le mentite spoglie di Martin Nevares, ragazzo intraprendente delle terre al di là dell’oceano nonché figlio adottivo dell’attempato Esteban Nevares. La storia prende le mosse dalla cattura di quest’ultimo da parte dell’odiosa famiglia sivigliana dei Curvo. L’anziano uomo viene infatti caricato di peso su un galeone spagnolo e portato nella città spagnola di Siviglia per essere tradotto nel tremendo Carcere Reale. Ma i Curvo, non contenti, uccidono anche tutto l’equipaggio dell’uomo, colpevole di conoscere i segreti dei loro loschi traffici lontano dalla madrepatria. A questo punto, Catalina/Martin decide di mettersi sulle tracce del padre, accompagnata nell’impresa dal fido Rodrigo, dal giovane Juanillo e dalla migliore curandera di Terraferma, Damiana. Dopo un lungo viaggio a bordo della fida Sospechosa, i quattro giungono al porto di Siviglia e in breve tempo riescono a raggiungere Esteban ormai ad un passo dalla morte dopo le terribili sevizie a cui è stato sottoposto da Diego Curvo. Prima di morire ottiene però il giuramento da parte della figlia adottiva di uccidere tutti i componenti della famiglia Curvo altrimenti la sua anima non avrà pace. Catalina organizza così la sua vendetta, potendo contare sull’aiuto di nuovi amici, l’aitante Alonsillo e la ex prostituta Clara Peralta

Questo piccolo romanzo rappresenta davvero una rivincita rispetto al mediocre Terraferma che personalmente ho trovato ridicolo, per molti versi assurdo e scritto in maniera alquanto pesante e lontanissimo dal piacevole stile al quale ci ha abituato da anni la brava Matilde Asensi. A dire il vero aprendo il libro mi sono chiesta che senso avesse avuto fare un seguito di un romanzo senza storia, poi a mano a mano che i personaggi si allontanavano dai Caraibi per giungere infine in Spagna ecco accadere il miracolo: la storia iniziava a conquistarmi. Certo un peso notevole ha avuto la maggiore conoscenza della scrittrice di luoghi e ambienti a lei più familiari rispetto alle isole dei Caraibi. Leggere la descrizione di Siviglia è stato come essere lì insieme ai protagonisti tanto da far crescere in me il desiderio forte di visitare questa antica e storica città, anche solo per rivivere un po’ della magia del romanzo. La storia si sviluppa piano piano fino a creare un vortice di situazioni dense di pathos supportate da un ritmo sempre più incalzante a mano a mano che il piano ingegnoso di Catalina prende forma. E’ lei la vera e unica protagonista del romanzo, concreta, intraprendente ma anche capace di vezzi femminili fino allora sconosciuti. Si trasforma in poco tempo in una vera dama sivigliana, circondata da lacchè e argenteria di gran lusso, elementi imprescindibili (oltre alla più bella villa di Siviglia) per entrare in contatto diretto con i ricchi e influenti Curvo. Abbastanza ridicola e risibile la cotta di Catalina per il francamente idiota Alonsillo, scopatore instancabile di Juana Curvo e descritto in tutto il romanzo come scemo del villaggio. Da una testa fina come quella della nostra eroina ci saremmo aspettati qualcosa di meglio e invece ahimè ci tocca subire i sospiri di gelosia di Catalina (non tanto affascinante evidentemente da attirare l’uomo dei suoi sogni). Divertentissime poi le morti dei Curvo, alcune a dire il vero a botto ritardato: sifilide, curaro, coltellata e stoccata di fioretto (quest’ultima non senza conseguenze tragiche per la stessa Catalina).

Insomma La Vendetta di Siviglia rappresenta un passo avanti rispetto al suo modesto predecessore nonostante presenti sempre qualche difetto di credibilità, specie sul finale quando Catalina non fa che spogliarsi e rivestirsi per mostrare ai Curvo la sua vera identità in modo che prima di morire schiattino dalla rabbia all’idea di avere avuto sempre davanti il loro nemico numero uno. La doppia identità sembra ancora francamente inverosimile soprattutto per il modo in cui gli uomini della storia sembrano accettarla senza batter ciglio, atteggiamento alquanto strano per un’epoca in cui era facile che una cosa del genere venisse punita col rogo o peggio. Stiamo parlando in fondo della cattolicissima Spagna e di un mondo al maschile. Ma trattandosi di un romanzo di finzione lo si accetta per quello che è e si tira avanti. Inutile dire comunque che ho preferito un’astuta donna che trama nell’ombra (La vendetta di Siviglia) che una ragazza travestita da uomo e con la voce contraffatta che nessuno riesce a riconoscere (Terraferma): molto più credibile.

Ci aspetta comunque un terzo segmento di storia vista la sibillina chiusa del romanzo e non so se gioirne o meno.

VOTO 7   

    

martedì 5 giugno 2012

0 Un week end da bamboccioni (2010)

Farò un paragone per molti versi (e per molti critici) terribile ma per me questo Grown Ups ricorda da vicino (ma intendiamoci in tono alquanto minore) il francese Piccole bugie tra amici. Anche qui abbiamo un gruppo di amici fraterni che si conoscono dai tempi dell’infanzia, che si riuniscono in occasione di un funerale e che scoprono che dietro la facciata si nascondono verità insospettabili. Il week end al lago nella grande casa in cui hanno condiviso tanti bei momenti serve a ciascuno di essi per maturare e capire che in fondo è meglio essere se stessi con i propri difetti piuttosto che fingere una vita perfetta che in realtà non esiste. Tutto questo ovviamente condito da battute salaci, gag a ripetizione e situazioni paradossali.

 In Italia il film non è piaciuto mentre negli USA è stato un gran successo al botteghino. Ovvio, la trama è condita di tutta una serie di elementi tipici della cultura americana: il basket come sport nazionale da insegnare ai propri figli magari raccontando fino allo sfinimento l’ultimo decisivo punto che ha permesso alla squadra del papà di vincere il campionato a scuola, le cazzate dell’adolescenza che contribuiscono alla formazione dell’individuo adulto, i marshmellow da mangiare intorno al fuoco, l’immancabile bacon a colazione, l’amore per le mogli che si manifesta con un ballo lento in una sera d’estate e via dicendo.

Le commedie americane possono piacere o non piacere ma è sicuro che quelle di ambito famigliare difficilmente piaceranno in Italia a meno che il protagonista non sia un bambino (vedi l’ormai vetusto Senti chi parla o Mamma ho perso l’aereo). Agli italiani piace la commedia sentimentale oppure quella che ha per protagonisti nomi celebri della Walk of fame (Cameron Diaz, Ben Stiller, per fare due esempi) o infine la classica (e a mio modesto avviso) becera commedia con adolescenti arrappati alle prese con le prime esperienze sessuali (vedi American Pie e i suoi numerosi seguiti).

Questo film è sano, frizzante, fresco e pieno di ritmo. Genera buonumore e risate costanti. Ha anche un buon cast: Adam Sandler in grandissimo spolvero ( e in questo caso figura anche come sceneggiatore e produttore), una Salma Hayek inedita, l’affascinante Maria Bello che dopo diversi ruoli drammatici si cimenta brillantemente con la commedia e poi molti volti noti della commedia americana.

Consigliato a chi vuole ridere senza pensieri godendosi indirettamente un divertente fine settimana a lago.

VOTO 7

    

  

0 Dylan Dog 171–Possessione diabolica

 Soggetto e sceneggiatura: Claudio Chiaverotti

 Disegni: Giovanni Freghieri

 Trama: la giovane astronauta britannica Kay sviene durante una complicata operazione nello spazio sostenendo al suo risveglio a Londra di aver visto il diavolo. Ma c’è di peggio perché la ragazza è convinta che dentro di lei sia presente la diabolica creatura del Male. A questo punto, come nella migliore tradizione, si reca a chiedere aiuto a Dylan Dog che, come al solito, si dimostra inizialmente scettico pensando che si tratti di semplice autosuggestione. Frattanto viene uccisa da un fanatico religioso la sorella gemella di Kay, Charlize. Questo fatto spinge Dylan ad accettare il caso. Nel corso delle indagini viene a scoprire casualmente che l’assassino (che nel frattempo ha continuato a uccidere persone vicine a Kay) è un campione di scherma chiamato Valus Grant. Costui, mesi prima, era entrato in coma a causa di un brutto incidente stradale e durante i tre mesi di incoscienza aveva continuato a sentire delle voci nella testa che gli dicevano che aveva ricevuto un grande dono da Dio, ossia poter vedere il Diavolo nel volto degli  esseri umani posseduti. Lo stesso Grant rintraccia Dylan per pregarlo di uccidere Kay ma finisce fulminato dalla corrente elettrica. Prima di morire però fa delle importanti rivelazioni all’Indagatore dell’Incubo che finalmente capisce che in realtà il vero artefice di questa follia non è altro che Sherman, l’ingegnere capo della missione a cui aveva partecipato Kay. Questi, geloso del successo della ragazza e timoroso che le potesse essere affidata la direzione del centro spaziale, aveva manomesso la tuta spaziale di Kay in modo da farla morire nello spazio ma la donna era stata salvata appena in tempo. La prolungata mancanza d’ossigeno però aveva prodotto l’allucinazione sul Diavolo e Sherman ne aveva approfittato per istigare Grant ad uccidere la ragazza.

Commento: la storia mantiene strettamente il contatto con la realtà visto che tutto viene spiegato in maniera logica e scientifica. Il Diavolo quindi non esiste, non ha mai preso possesso del corpo della ragazza…ma allora perché quella vignetta finale in cui gli occhi di Kay confermano la presenza del diavolo? Questo trucco sa di fumetti e film dell’orrore di serie b ma mantiene fede a Dylan Dog che non potrà mai essere un fumetto razionale al 100%. A parte la banalità o meno del finale, diciamo che la storia è abbastanza appassionante anche se trasmette poco a livello di “cast”. I protagonisti sono tutti un po’ freddini e guidati da logiche approssimative. Persino Dylan, con la giovane faccia disegnata da Freghieri, sembra alquanto sottotono, così come le brutte battute di Groucho, per una volta figura assolutamente marginale. Poco ispirati anche i riferimenti a film che lo sceneggiatore ritiene deludenti (La moglie dell’astronauta) e che rendono il tutto un po’ troppo casereccio. Insomma con questo numero non si raggiungono decisamente i piani alti ma la storia è comunque gradevole e inedita nel suo scenario spaziale.

VOTO 6 

lunedì 4 giugno 2012

1 Lo chiamavano Trinità (1970)

Ogni volta che mi capita di vedere un film della mitica accoppiata Bud Spencer e Terence Hill finisco per commuovermi e pensare con nostalgia a tutti quei pomeriggi dei primi anni 80 quando al cinema dell’oratorio piazzavano film come questi. Molti ritengono questo spaghetti western in salsa comica come una vera e propria pietra miliare e in effetti lo è, un po’ sotto tutti i punti di vista: battute fulminanti e dense di schietta saggezza popolare, paesaggi stile Messico ma in verità italianissimi, lunghe scazzottate senza soluzione di continuità. E poi come dimenticare la mitica fagiolata dei primi minuti, quando Trinità (la mano destra di Dio) aggredisce una pentola di fumanti legumi con accompagnamento di maxi scarpetta di pane e un fiasco di vino? Pare che Terence Hill avesse digiunato ben due giorni per poter girare al meglio quella scena e in effetti la sua fame vorace è parecchio realistica e contagiosa!

La storia è semplice, racconta di due fratelli nati dalla stessa tenutaria di bordello che si barcamenano nella vita tra furti di bestiame e imbrogli al tavolo da gioco. Si chiamano Trinità e Bambino. Uno è magro e veloce come un fulmine, l’altro e grande grosso e forzuto. I due si rincontrano dopo un bel po’ di tempo e insieme decidono di aiutare una comunità di mormoni a liberarsi dai gringos che vogliono spazzarli via dalla vallata dove hanno deciso di stabilirsi.  

C’era una strana poesia in questi film così semplici, lineari e girati con i mezzi che si avevano a disposizione. Erano il frutto di un lavoro di sperimentazione ma anche di rispetto verso la onorata tradizione western italiana. Lo chiamavano Trinità non vuole prendere in giro un genere ma riscriverlo in chiave comica e ci riesce benissimo, grazie come ho detto più su a dialoghi scoppiettanti, scene e costumi ricostruiti con cura e una sana ingenuità che sapeva bene però di colpire nel segno, cioè attirare le folle al cinema e tenerle (anche tuttora) incollate alla poltrona di casa. Che dire poi delle musiche? Inutile dire che una delle prime cose che ho fatto dopo aver visto il film è stato scaricare la mitica colonna sonora che accompagna i nostri eroi fino alle battute finali.

Terence Hill è sempre la parte scanzonata della coppia e Bud Spencer è semplicemente lui, serio, monumentale e con la battuta giusta. Dire che coppie cinematografiche di questa levatura non appariranno mai più equivale a riconoscere un dato di fatto oggettivo. Per fortuna rimangono i film a ricordarci che c’era un tempo in cui l’Italia era numero 1 nel mondo in campo cinematografico.

Non mi ritengo una patita del genere ma non posso che premiare con un buon voto un film capace di risvegliare ricordi lontani come questo.

VOTO 7

venerdì 1 giugno 2012

0 Walter e io. Ricordi di un figlio–Simone Annicchiarico

Simone Annicchiarico scrive un libro semplice e schietto, quasi un diario personale che solo a tratti sembra rivolgersi ad un pubblico di lettori. E’ una biografia che non punta a raccontare una vita intera ma solo degli episodi tra tanti che servono a descrivere un Walter Chiari sconosciuto, padre, amico, viaggiatore e amante della natura e degli animali. Sarebbe stato difficile per un figlio rimasto orfano di padre poco più che adolescente, ricostruire la vita di Walter Chiari ma soprattutto il fine del libro non era questo, si capisce dall’amore e dall’ammirazione che fuoriesce da ogni singola pagina di questo piccolo libro. Devo dire che a volte si ha l’impressione netta di pagine partorite con fatica, comprovato dalla lunga gestazione del libro (fatto sottolineato dallo stesso Simone nell’introduzione) ma si ha anche la sensazione buona di ricordi che fanno sorridere e commuovere allo stesso tempo. Si percepisce la nostalgia di un figlio che ha perso il padre troppo presto ma soprattutto l’amicizia vera che esisteva tra padre e figlio, sempre pronti a cimentarsi in una nuova avventura o a soffocare di risate per una situazione particolarmente divertente.

Prima di leggere questo libro, ho visto la fiction in due puntate che ricostruisce la vita di Walter Chiari (impersonato magistralmente da un ottimo Alessio Boni). Devo dire che mi è piaciuta moltissimo nonostante a più riprese Simone Annicchiarico abbia criticato il modo in cui è stato dipinto il padre e abbia smentito numerosi episodi ricostruiti nel film. Ovviamente non sapremo mai la verità ma entrambe le fonti (libro e fiction) ci restituiscono l’immagine di un uomo buono, dimenticato ingiustamente dalla televisione, ottimista e affezionatissimo al proprio figlio. Credo che questo sia il messaggio più importante al di là dei sospetti sull’uso di droga o sulla passione per il tavolo verde, sull’esperienza carceraria o sulle fantomatiche cozze propinate al figlio allergico (Annicchiarico nega l’episodio).

Tornando al libro. Non aspettatevi una lunga biografia. E’ un libriccino di pensieri, a volte rancorosi nei confronti di chi ha esiliato il padre (la Rai), molto più spesso nostalgici ed euforici. E’ un libro in cui Simone Annicchiarico parla anche tanto di Simone Annicchiarico come spesso succede quando si ripensa al proprio passato ma tutto risulta comunque gradevole. La penna certo non è quella di uno scrittore e tutto suona a prima vista come un’operazione commerciale che sfrutta il nuovo volto televisivo di Italian’s got talent ma come ho detto più volte il libro si fa leggere e questo è ciò che conta alla fine della fiera.

VOTO 6,5    

 

La finestra sul cortile Copyright © 2011 - |- Template created by O Pregador - |- Powered by Blogger Templates