mercoledì 29 febbraio 2012

0 Accattone (1961)

Opera prima di Pier Paolo Pasolini e considerato da molti critici come il suo lavoro più riuscito, Accattone racconta uno spaccato di vita nella periferia romana. Al centro della storia abbiamo Vittorio, alias Accattone, un ragazzo che non ha mai lavorato (così come i suoi amici di borgata) e che sopravvive grazie a Maddalena, una ragazza che fa la vita per mantenerlo. Accattone è il re del quartiere fino a quando la sua donna non viene incarcerata per falsa testimonianza. In quel momento conosce la fame, quella più nera, ma non si piega comunque alla logica del lavoro, fiero di non essersi mai piegato davanti a nessuno. Nello stesso periodo conosce Stella, una ragazza ingenua e sprovveduta, che presto pur di accontentarlo finisce anche lei per prostituirsi, scappando però alla prima occasione perché consapevole di preferire una vita onorata. Vittorio si innamora di questa ragazza che sembra rappresentare l’antitesi del mondo di nullafacenti al quale è abituato fin dalla nascita e proprio per questo amore decide di provare a lavorare per la prima volta nella sua vita. Difficile però cambiare da un giorno all’altro e infatti già il giorno dopo, a seguito di un sogno tragicamente profetico, decide di tornare al furto e al guadagno facile non sapendo però che dietro l’angolo lo aspetta la morte.

Il film è ovviamente un classico nella cinematografia italiana, un vero caposaldo, un pugno nello stomaco rispetto alle commedie leggere leggere dello stesso periodo che ambientano le loro storie in una Roma bellissima e romantica, tra gente di borgata che lavora per campare e vive onestamente. Qui Pasolini tratteggia un mondo reale, brutto e reale, tra paesaggi brulli, condomini in costruzione, bambini che giocano tra i rifiuti e catapecchie. La maggior parte del film è girato infatti in esterna utilizzando ampiamente il campo lungo, quasi a voler sottolineare, imprimendolo nello sguardo dello spettatore, il mondo che esiste al di là delle apparenze di Roma Caput Mundi. Roma è anche questo, un luogo dimenticato da tutti tranne che dalla polizia (la “madama”) e dalla Chiesa, sempre pronta a sfamare la povera gente del quartiere. Il regista qua e là richiama il concetto di santità legandolo alla figura di Accattone, in contrapposizione e similitudine, vedi per esempio il momento iniziale quando Vittorio per sfida si sta per lanciare dal ponte e l’inquadratura cattura l’uomo e una statua che gli sta affianco. Insomma è un film ricco di simbolismi e di crudezza, così com’è tipico nei lavori di Pasolini sempre pronti a cogliere il peggio dell’umanità ma anche a denunciare al mondo l’esistenza anche di una realtà diversa da quella alla quale siamo abituati o che fingiamo di non vedere.

I dialoghi si svolgono tutti in romanesco, ennesimo stratagemma evidentemente funzionale al rispetto del realismo della storia. I protagonisti hanno tutti dei connotati che sembrano voler denotare la loro provenienza sociale, non ci sono infatti facce pulite e perfette ma visi con tratti marcati e induriti. Il linguaggio è duro anche se in molti casi attenuato, probabilmente per evitare tagli o censure in un’epoca in cui sarebbe stato inaccettabile presentare al pubblico un lavoro troppo esplicito. In effetti il sesso è sempre presente ma non si vede mai, elemento che cambierà nettamente nei lavori successivi di Pasolini realistici anche su quel fronte. E’ comunque un film oltremodo coraggioso e scomodo che andrebbe visto e rivisto.

VOTO 8    

sabato 25 febbraio 2012

0 Acapulco prima spiaggia a sinistra (1983)

Gigi e Andrea sono due trentenni bolognesi, disoccupati e con la fissa delle donne. Ogni anno sognano di partire in vacanza verso mete esotiche ma immancabilmente finiscono per trascorrere l’estate nella vicina Cesenatico dove per giunta non riescono mai a battere chiodo con nessuna ragazza che gli capita sotto tiro. Al ritorno dalle disastrose vacanze finiranno per accontentarsi di due donne non belle ma disponibili.

Il film è meglio di quello che ci si possa aspettare dall’accoppiata Gigi e Andrea, tanto da arrivare più di una volta al sorriso grazie alle numerose gag che li vedono protagonisti. Non è molto apprezzabile invece la vena leghista di gran parte dei dialoghi, dove il Sud Italia è praticamente visto come l’Africa e gli abitanti come terroni. Diciamo che negli anni 80 era un cliché abbastanza diffuso e infatti neanche in questo caso si sfugge all’inserimento della donna sarda chissà perché brutta e con un accento impossibile (oltre che sbagliato). In ogni caso vediamo comparire due giovanissime Serena Grandi e Anna Kanakis che non mostrano particolari doti recitative oltre ad un viso ancora non sottoposto al botox o al bisturi del chirurgo plastico. Si respira per 90 minuti l’atmosfera goliardica dei film dei vitelloni e delle vacanze anni 80 tra pensioni di quarta categoria e topless a go go. Insomma un filmetto senza particolari pretese con due attori all’apice del loro successo.

VOTO 6

venerdì 24 febbraio 2012

0 Ballata Macabra (1976)

La trama vede al centro la famiglia Rolf, composta da Ben, Marion, il piccolo David e l’anziana zia Elizabeth. I quattro decidono di prendere in affitto per l’estate una maestosa casa che avranno il compito di pulire e tenere in ordine durante l’assenza dei due legittimi proprietari, due strani fratelli che sembrano nascondere qualche arcano segreto. Tra tutti è Marion quella che viene maggiormente conquistata dalla villa ed è lei che si prende cura dell’anziana madre dei proprietari che vive in una dependance all’ultimo piano dell’abitazione. Dopo poche settimane però iniziano a presentarsi i primi problemi che si manifestano in fatti inspiegabili che vedono protagonisti i vari componenti della famiglia, fino alla morte sistematica di ognuno di essi.

Ci troviamo di fronte al più classico degli horror hollywoodiani anni ‘70 che in questo caso prende le mosse dal romanzo Burnt Offerings di Robert Marasco, sconosciuto a noi italiani ma a vedere la sua trasposizione cinematografica incredibilmente somigliante al più celebre Shining di Stephen King. In effetti in entrambi i romanzi/film si parla di una famiglia che decide di occuparsi di una casa (o albergo) che si scoprirà essere infestata (Shining) o comunque viva e affamata di vite umane (Ballata Macabra). In entrambi i casi vediamo inoltre come la casa riesca a smuovere la parte più oscura del componente più fragile della famiglia, in questo caso Ben che capiamo essere vittima da anni di un trauma infantile legato al funerale della madre. Le allucinazioni si susseguono a ritmo sempre più incessante fino a portare l’uomo quasi all’uccisione del proprio figlio e poi ad uno stato di paralisi mentale e fisica. Marion invece è linfa vitale per la casa, è la prescelta per nutrire la casa e renderla di nuovo splendida come al momento della sua costruzione. La donna perde il controllo su se stessa dopo poco tempo ed è complice nella morte dei suoi familiari nonostante a più riprese tenti ancora di resistere al fascino perverso di quello strano luogo. Come è prevedibile in questo genere di produzione il passaggio dalla serenità e dall’entusiasmo iniziale fino alla tragedia finale è graduale con un ritmo sempre più crescente a mano a mano che diventa chiara l’impossibilità di fuggire al proprio destino. Come non aspettarsi che l’unica via d’uscita sia bloccata o che le porte si chiudano dietro le spalle dei protagonisti? Il regista poi gioca tanto sui primi piani che sembrano voler sottolineare la follia e la paura nei volti dei protagonisti sempre più alla mercé di forze sconosciute e perciò invincibili. Si tratta quindi di un film che presenta molti cliché agli occhi di uno spettatore moderno ma che è assolutamente imperdibile per chi subisce il fascino di prodotti che hanno dato vita ad un genere prolifico e praticamente inesauribile. Anche la recitazione è poi su livelli più che buoni con la partecipazione della grande Beth Davis in un ruolo tutto sommato marginale. Ciò che stupisce è la modernità del finale con una sequenza che ci mostra le foto di Ben, David ed Elizabeth sul tavolino dove per buona parte del film ci sono state mostrate numerose foto incorniciate che sembravano essere quelle di parenti defunti dei proprietari e invece chiaramente erano i volti di chi è stato ucciso dalla casa nel corso di un secolo allo scopo di tenerla viva per sempre. E’ un finale a suo modo ironico, geniale e anche in questo caso scopiazzato da Shining (il volto di Jack in una vecchia fotografia nel finale del film). Insomma un gran film.

VOTO 7,5    

martedì 21 febbraio 2012

0 Frailty (2001)

Frailty è un thriller che ti impone di scegliere una strada, quella del dubbio o quella della certezza. Della logica o della fede. E lo fa con un racconto dentro il racconto.

Notte di pioggia. Nel commissariato di Dallas un ragazzo ha l’assoluta necessità di parlare con l’agente del FBI Wesley Doyle per rivelargli il nome dell’uomo che, sotto il nome di Mano di Dio, ha commesso numerosi omicidi finora rimasti insoluti. Il suo nome è Fenton e il serial killer è suo fratello minore Adam. L’agente inizialmente è scettico, pensa che si tratti del solito mitomane ma quando Fenton inizia il suo racconto, le sue certezze iniziano a vacillare. I due fratelli, Fenton e Adam, sono solo due bambini quando una notte il loro papà li sveglia di soprassalto per avvertirli che un angelo gli si è rivelato per assegnargli un compito gravoso ma necessario: distruggere i demoni che camminano sulla Terra sotto spoglie umane. Mentre Fenton è convinto che il padre sia impazzito e cerca inutilmente di dissuaderlo in tutti i modi, suo fratello Adam crede ciecamente alle sue parole affermando che anche lui riesce a vedere il vero volto dei demoni che il padre uccide in cantina dopo averli toccati per sincerarsi della loro vera identità. Fenton, colpevole secondo il padre di rifiutare Dio, viene chiuso in cantina per settimane finché sfinito ammette i suoi errori e accetta di aiutare il padre a compiere la sua missione. La notte del suo primo omicidio però uccide il padre rivelando così di non aver mai creduto alle sue parole ma di aver aspettato fino ad avere l’occasione giusta per fermare quello scempio. Prima di morire il papà gli dice che anche il nome di Fenton è presente nella lista dei demoni ma che lui non ci aveva mai creduto fino a quel momento e infine bisbiglia qualche parola alle orecchie del piccolo e fedele Adam. Ritornati nel presente, vediamo come infine l’agente si sia convinto ad accompagnare Fenton al luogo dove sarebbero state seppellite le varie vittime della follia di Adam, ma è qui che accade l’imprevedibile…

Il finale è degno dei migliori film thriller con colpi di scena a ripetizione e riflessioni su come l’apparenza nasconda qualcosa di più profondo e visibile solo da chi è guidato da una fede incrollabile o da una logica follia. Il regista, Bill Paxton, a questo proposito ha costruito un bellissimo gioco di specchi che disorienta lo spettatore facendogli compiere un percorso che va dallo scetticismo più completo al dubbio che ci sia più di un fondo di verità nelle parole dei fanatici religiosi disseminati sulla Terra. Vedendo il film si capisce come la serie Supernatural abbia attinto a piene mani da questo piccolo capolavoro di genere e forse anche tante altre produzioni cinematografiche successive. La bellezza del film sta proprio nella semplicità del racconto (un quadro dentro una cornice, il passato raccontato e il presente vissuto) con un uomo che freddamente racconta la storia della sua vita all’interno di un semplice ufficio (un po’ come avviene in Dracula di Coppola) e un altro uomo che ascolta. Gli effetti speciali sono semplici e rari, molto funzionali al racconto e già da lì si capisce che se anche allo spettatore è concesso di vedere un angelo con la spada avvolto da un improvviso bagliore, forse il regista ci sta già facendo imboccare una precisa direzione senza che ne siamo veramente consapevoli.

Consigliatissimo.

VOTO 8,5       

venerdì 17 febbraio 2012

3 Sanremo 2012. Pagelle Quarta Serata

Noemi/Gaetano Curreri – Sono solo parole: il brano viene interpretato in chiave più confidenziale, più Stadio e al terzo ascolto diventa impossibile pensare che non meriti il podio. Bella sia in questa versione che in quella originale. VOTO 8

Pierdavide Carone/Gianluca Grignani – Nanì: per Grignani non è il primo brano che parla di un amore per una prostituta (vedi Il gioco di Sandy) ma stasera sembra proprio fuori contesto. Non riesce a entrare nella melodia della canzone, effettivamente lontana dal suo stile. Sembra un ospite non richiesto e il brano in questa versione perde tutta la sua carica interpretativa. In netto ribasso. VOTO 5 

Dolcenera/Max Gazzè – Ci vediamo a casa: stranissimo duetto. Il brano comunque vola alto sopra le stroncature  di alcuni critici musicali e infatti l’inciso entra in testa con netta facilità. E’ un pezzo fresco, pazienza per la pochezza del testo. Max Gazzè si limita ad accompagnare Dolcenera, perciò niente di nuovo sotto il sole. VOTO 6,5

Gigi d’Alessio/Loredana Bertè/Fargetta – Respirare: commentare questa orrida performance risulta davvero difficile. E’ puro trash senza senso, senza logica, senza motivazione. Il remix poteva anche essere un’idea ma questo circo proprio no. Come far precipitare le quotazioni di un brano nel giro di 3 minuti. Fortuna che questo scempio non verrà ripetuto nella serata finale. VOTO 1

Chiara Civello/Francesca Michielin – Al posto del mondo: la Civello gioca una carta furbissima, ma povera Francesca che orrendo vestito da bomboniera!!! L’esibizione è un vero disastro per svariati motivi: Francesca non canta nel microfono per guardare i tasti del pianoforte quindi la voce va e viene, imbarazzante vuoto mnemonico a metà brano e generale inadeguatezza della Civello che per la terza volta conferma di essere tutto tranne che una professionista. VOTO 3

Samuele Bersani/Paolo Rossi – Un pallone: la canzone è ironica, Paolo Rossi ci aggiunge il carico della sua comicità ed ecco che un brano mediocre diventa un motivetto da fischiettare sotto la doccia. Siamo sempre lontanissimi dal podio. VOTO 5,5

Eugenio Finardi/Peppe Servillo – E tu lo chiami Dio: Servillo risolleva le sorti di questo brano che piace tanto ai critici ma che annoia parecchio tutti gli altri. VOTO 5,5

Nina Zilli/Giuliano Palma -  Per sempre: Palma l’ho trovato abbastanza in difficoltà in un brano lento lento come questo. Non incide per niente e infatti la Zilli va benissimo da sola. Il brano continuo a sentirlo pesantino. VOTO 6

Arisa/Mauro Ermanno Giovanardi – La notte: continua ad essere inspiegabile il successo di questo brano così modesto. Cantato in coppia acquista un briciolo di pathos in più ma veramente poca cosa. VOTO 6

Emma Marrone – Alessandra Amoroso – Non è l’inferno: sarà incredibile ma il brano lo canta meglio l’Amoroso. Questa ragazza riesce sempre a impreziosire le esibizioni dei suoi ex compagni di Amici (vedi Scanu e ore Marrone). Doti interpretative superlative. Comunque un gran bel duetto nonostante l’assurdità del testo (come fa uno che ha fatto due guerre ad essere ancora vivo e ad avere un figlio di 30 anni?). VOTO 7

Matia Bazar/Platinette – Sei tu: no dai il brano recitato ha sempre floppato nei duetti di Sanremo…e infatti il tutto è penoso e inutile. Il brano comunque conquista di serata in serata e chissà che non riservi qualche sorpresa nel rush finale. VOTO 6,5

Francesco Renga/Scala e Kolacny Brothers – La tua bellezza: il coro stile Antoniano ricorda il Pippero di Elio. La canzone continua ad essere brutta come la prima sera e la spocchia di Renga risulta indigesta come sempre. VOTO 4       

 

 

 

 

 

    

0 Sanremo 2012. Pagelle Terza Serata

Chiara Civello/Shaggy - Io che non vivo: è ormai evidente che la Civello non sta facendo proprio nulla per rendersi più appetibile visto che pure stasera non sappiamo distinguerla da una semplice corista passata lì per caso ad accompagnare, con anonima voce, un ingrassatissimo Shaggy. Comunque entrambi rovinano irrimediabilmente questo pezzo di storia italiana. VOTO 4

Samuele Bersani/Goran Bregovic – Romagna mia: la scelta del motivetto era anche apprezzabile ma la dodecafonia dei suoni fa venire voglia di azzerare il volume del televisore e di correre a prendersi un Malox. Devastante. VOTO 4

Nina Zilli/Skye – Grande grande grande: finalmente qualcosa di passabile anche se onestamente troppo scolastico per poter gridare al miracolo. Le due cantano bene senza errori ma anche senza particolare emozione. VOTO 6

Matia Bazar/Al Jarreau – Parla più piano: il tema de Il padrino non andrebbe mai cantato ma solo ascoltato perché a sentire ciò che viene fuori da stasera c’è da mettersi le mani nei capelli tra le stecche della Mezzanotte e i vocalizzi inquietanti di Al Jarreau. VOTO 4,5

Emma/Gary Go – Il paradiso: la Marrone ritrova il sorriso e la spontaneità dopo due serate di algida freddezza e mimica gestuale (provate a vedere come mima e canta la prima strofa del suo brano in gara). E’ evidente che tornare alla dimensione cover (come ad Amici) e condividere il palco, la fa sentire più rilassata e si vede. Il brano è cantato in modo un po’ scolastico ma non si segnalano orrori. VOTO 6

Arisa/Josè Feliciano – Che sarà: preoccupante la scenetta iniziale della serie “il non vedente dove lo metto”, con Morandi e Arisa in evidente difficoltà. L’interpretazione invece è quanto di meglio sentito finora, soprattutto nella parte di Feliciano visto che Arisa si presenta in panne sulle note alte ma rimedia lasciando ampio spazio a Josè. VOTO 7

Francesco Renga/Sergio Dalma – Il mondo: quest’anno trovo Renga piuttosto fastidioso nel persistere nell’atteggiamento da leader anche perché diciamoci la verità la performance non è delle migliori. Si preferisce di gran lunga la versione originale di Fontana, più intensa e meno accademica. Noioso anche il compare spagnolo. VOTO 5,5

Pierdavide Carone/Lucio Dalla/Mads Langer – Anema e core: atmosfere retrò che centrano il segno soprattutto con Mads Langer, Carone abbastanza fuori contesto e Dalla semplice accompagnatore al piano. Bellissimo l’arrangiamento. VOTO 6,5

Irene Fornaciari/Brian May/Kerry Ellis – Uno dei tanti: Irene finalmente tira fuori la voce e stupisce, grande interpretazione impreziosita dalla grande voce della Ellis e dalla mitica chitarra di May. Uno spettacolo di grande impatto che spazza via tutto quello visto finora. Inutile dire che con We Will You rock you crollano giù le pareti dell’ingessatissimo Ariston. VOTO 10

Marlene Kuntz/Patti Smith – Impressioni di settembre: ma quanto è sfiatato e stonato il cantante dei Marlene? Un disastro. Fortuna che quel mostro sacro della Smith risolleva le sorti di questa meraviglia di canzone. La performance risulta come un tavolo con la zeppa. VOTO 6

Gigi d’Alessio/Loredana Bertè/Macy Gray – Almeno tu nell’universo: Mimì non viene certo ricordata nel modo migliore tra l’imbarazzante inserimento di gorgheggi neomelodici di scuola napoletana e il soul (quasi alcolico) di Macy Gray. Forse le cose migliori le offre proprio la Bertè che rimane comunque sguaiata. Si poteva fare meglio. VOTO 5,5

Eugenio Finardi/Noa – Torna a Surriento: si torna ad un livello altissimo che sembra quasi stonare in mezzo a tanta mediocrità. Noa infatti regala un’interpretazione da pelle d’oca e Finardi ritorna al rock facendosi perdonare per la svolta trascendentale imboccata in questo Festival. VOTO 7

Dolcenera/Professor Green – Vita Spericolata: scelta sbagliata, mai coverizzare Vasco Rossi. La canzone non è reinterpretabile né riarrangiabile. Si finisce perciò per scimmiottare l’originale e viene sempre male, malissimo. Questa performance è una linea piatta che spiega come mai Dolcenera non sia mai uscita dall’anonimato. VOTO 4

Noemi/Sarah Jane Morris – Amarsi un po’: performance di classe tra i toni caldi della Morris e un arrangiamento da jazz club. Prevedibilmente perfetta, forse troppo. L’ho trovata freddina. VOTO 7,5           

mercoledì 15 febbraio 2012

0 I vendicatori–Stephen King

Il romanzo uscì nell’ormai lontano 1996 contemporaneamente a Desperation. I due romanzi sono strettamente legati, almeno da un punto di vista superficiale: copertine che si fondono per creare un’immagine inquietante, stessi personaggi che però hanno una vita diversa o un aspetto differente, ma soprattutto stesso cattivo di turno ossia Tak, essere indefinito e indefinibile ma sempre pronto a impossessarsi di corpi (umani e non) che prontamente si squagliano perché inadatti a contenere una forza così dirompente.

Stavolta non ci troviamo nello strano paese di Desperation ma in una via sita in un bel quartiere residenziale abitato da quanto di meglio offre il campionario americano: famigliole felici, coppie innamorate, vicini amichevoli e sempre pronti a prestarti una tazza di zucchero o ad organizzare barbecue il giorno del 4 luglio. Però durante un pomeriggio assolato in questo quartiere così perfetto da far stridere i denti accade l’imprevedibile: il ragazzo che porta i giornali viene falciato da un mitra appena spuntato da un incredibile furgone e dopo di lui il cane dei bei gemelli della casa in fondo alla via e poi la moglie fedifraga del povero professore occhialuto e ignaro di avere al fianco una donna infedele (morta infatti senza mutandine). Piano piano molti altri vengono uccisi da furgoni guidati da personaggi impossibili che sembrano avere come scopo quello di sterminare l’intero quartiere. Col trascorrere delle ore e grazie a numerosi flash back capiamo che tutto ciò è la concretizzazione della fantasia di un bambino autistico (Seth) posseduto dal malvagio Tak, ghiotto di spaghetti in scatola e hamburger frollati. Solo Audrey la zia di Seth sa cosa sta succedendo ma non può scappare a meno che non approfitti della momentanea assenza del mostro che la tiene prigioniera nella sua stessa casa, ad osservare impotente come i suoi storici vicini vengano fatti brutalmente fuori senza un preciso motivo, solo per divertimento.

Il romanzo è strano se non proprio strambo, surreale all’inverosimile, talmente tanto da risultare abbastanza indigesto per chi ama la logica tout court. La trama non cattura fino in fondo se non nell’aspetto ansiogeno dato dal rendersi conto di non poter fuggire, essendo semplici marionette nella fantasia malata di un ragazzino posseduto da un antico spirito millenario. Il libro è firmato sotto lo pseudonimo di Bachman il che vuol dire che nella storia non c’è spazio per la misericordia ma solo per la follia, non c’è l’happy end e non si contano i morti (anche se ad essere onesti le morti coinvolgono spesso i personaggi meno amabili quindi risultano quasi confortanti sotto un certo punto di vista). A me il romanzo non è piaciuto particolarmente, sia per la logica mancante sia per il tempo di svolgimento dell’azione, troppo riduttivo racchiudere l’intera vicenda nello spazio di meno di 24 ore. Preferisco i romanzi di più ampio respiro e questo sicuramente non lo è. Inoltre odio non capire i finali e qui ce n’è uno particolarmente illogico. Mah, tra i due preferisco e consiglio Desperation anche se neanche in quel caso possiamo parlare di un capolavoro.

Leggibile ma non memorabile.

VOTO 6,5  

0 Sanremo 2012. Pagelle Prima Serata

Dolcenera – Ci vediamo a casa: soliti ciglioni appesantiti da chili di mascara, un po’ più anni sulle spalle ed ecco l’apripista Dolcenera, una che il successo non l’ha visto mai ma che ogni tanto ricompare sui nostri schermi ad inghiottirci con quella sua grande bocca e a farci imbestialire con quella sua voce fastidiosamente gutturale. La musica sarebbe anche coinvolgente ma il testo si perde tra luoghi comuni e banalità, ma in fondo Sanremo e Sanremo ed è già tanto di questi tempi trovare un po’ di armonie in tanta musica falsamente intellettuale e perciò inascoltabile. Una canzoncina così così, non memorabile. VOTO 6

Samuele Bersani – Un pallone: anche lui è più vecchio e per giunta più miope vista la grandezza dei bulbi oculari dietro le lenti spesse. Scarpini da calcio e finto frac. Si era vociferato che avrebbe cantato in playback per mancanza di voce e a vedere come la bocca non è in sincro con la voce sembrerebbe proprio che la nefandezza sia al fine avvenuta. La canzone ha il marchio di fabbrica bersaniano, surrealismo a go go e messaggi subliminali. L’inciso è fastidioso, non merita un posto tra le 14, eliminabile senza rimpianti. VOTO 5

Noemi – Sono solo parole: capelli più corti e più rossi, sempre più matura su di un palco che due anni fa non l’ha capita e le ha preferito il ridicolo patriottismo di Pupo e l’amore nei laghi di uno Scanu presto dimenticato dalle grandi masse filippiane. Noemi vanta già prestigiose collaborazioni e forse questa è la più bella perché coinvolge un cantautore di grande spessore e bravura ma inspiegabilmente sottovalutato dal grande pubblico, Fabrizio Moro, uno che i testi li sa scrivere a sentire questo piccolo gioiello che sembra cucito addosso alla voce roca di Noemi. Un inizio in punta di piedi che rende ancora più incisiva e avvolgente la potenza vocale di questa grande interprete. La storia di un amore in crisi ma senza luoghi comuni. VOTO 8

Francesco Renga – La tua bellezza: ecco la prima canzone veramente brutta di questo festival, quella che poteva tranquillamente non esserci ma che incredibilmente arriva dentro le nostre case con un testo orrendo e privo di senso, una cosa lontanissima dai capolavori firmati da Renga. Nella strofa iniziale riesce persino a risultare calante e ahi ahi non è proprio da lui. Deludente. Come può essere indicato come papabile vincitore lo sa solo Dio. VOTO 4,5

Chiara Civello – Al posto del mondo: questa cantautrice è davvero sconosciuta ma porta al festival un pezzo meraviglioso non supportato da una gran voce. Per me il brano necessitava di un’estensione vocale superiore alla sua, molto superiore. In ogni caso l’accompagnamento di violino è da brivido (di piacere) e l’inciso è più che orecchiabile, vera manna per noi che disprezziamo le canzoni da riascoltare mille volte prima di interiorizzarle o capirle. Di grande atmosfera, maestosa. VOTO 8

Irene Fornaciari – Grande Mistero: lei è raccomandata e ormai è assodato perché altrimenti mi risulta incomprensibile la sua presenza visto che non ha mai venduto un disco oltre la cerchia dei parenti e visto che ha una voce veramente ma veramente brutta. Testo e musica sono del Van de Sfroos che ci era tanto piaciuto l’anno scorso ma che quest’anno delude parecchio omaggiandoci del secondo brutto brano della serata. In realtà sia la melodia che le parole ricordano tantissimo papà Zucchero ma Adelmo sembra non comparire tra i rei di questo scempio musicale. VOTO 5

Emma – Non è l’inferno: ecco la seconda favorita alla vittoria. Il brano è firmato da Checco dei Modà che stufo dei pezzi di amori smielati si lancia nelle tematiche retoriche in rima baciata . So che verrò falciata da critiche feroci ma per me la canzone è orrenda e lontanissima dal mondo giovanile che acquista i dischi, lontana anni luce da Emma Marrone inspiegabilmente assurta al ruolo di paladina di messaggi sociali. Verrà senz’altro aiutata dal duetto con l’Amoroso ma il testo rimane quello che è, ossia brutto. VOTO 4,5

Marlene Kuntz – Canzone per un figlio: il brano stenta a decollare accompagnato dalla voce soffiata del cantante, troppo soffiata quasi impercettibile tranne che per l’udito più affinato dei cani, più abituato agli ultrasuoni. Anche in questo caso di primo acchito non si pensa bene di questo brano e ci si continua a chiedere ma davvero le canzoni escluse erano peggiori di quelle che stiamo ascoltando? Pezzo noioso, pesantissimo. VOTO 4,5

Eugenio Finardi – E tu lo chiami Dio: la sua voce rimane inconfondibile ma rimpiangiamo Extraterrestre. Il brano sembra un po’ lagnoso anche se si avverte la differenza tra il testo di un cantautore di grande esperienza come Finardi e altri ridicoli esempi offerti questa sera da una nutrita schiera di cantanti. In ogni caso non è un brano che comprerei o ascolterei più di una volta nella vita. VOTO 5

Gigi d’Alessio – Loredana Bertè – Respirare: il duetto più improbabile dai tempi della Berti con Faletti. Piaggeria (destroide) da una parte e follia chimica dall’altra. Il brano è divertente e si fa sicuramente cantare, molto d’alessiano e poco bertiano. Sembra assurdo ma le due voci sembrano sposarsi a meraviglia in questo brano stralunato, il primo movimentato in una serata ingessatissima. Sorprendente. VOTO 7

Nina Zilli – Per Sempre: la solita canzone della Zilli con atmosfere retrò e voce sulla scia della povera Winehouse. Il brano ricorda la Mina degli anni d’oro e tutto sommato viene facile immaginare che la resa radiofonica sarà superiore al live, un po’ legnoso al primo ascolto. Da riascoltare. VOTO 6,5

Pierdavide Carone – Ninì: eccolo il secondo Amico, arrivato in punta di piedi perché meno carismatico della Marrone e in effetti esteticamente anonimo. Ha un padrino che è un pezzo da 90 e un brano piuttosto scomodo per un ragazzo della sua età. Apprezzabile sia da un punto di vista vocale che interpretativo. Mi ha davvero sorpreso perché per il momento è l’unico che sembra davvero lontanissimo dal pianeta De Filippi. Bellissimo pezzo. VOTO 8

Arisa – La notte: dopo la vetrina di X Factor ottiene prevedibilmente un posto tra i 14, con un look diverso (diciamo pure più normale) e una voce che non conoscevamo. L’effetto è abbastanza inquietante se si ricordano i tempi di Sincerità. Il brano è un classicone che passa abbastanza inosservato tra diverse chicche presentate dai suoi colleghi. La mia opinione personale è che l’esperimento Arisa2 non abbia centrato il bersaglio. VOTO 6

Matia Bazar – Sei tu: un ritorno molto sentito, in effetti la Mezzanotte mancava tanto dopo la parentesi sguaiata che l’ha preceduta come voce femminile dei Matia. Tutti segretamente ci aspettiamo Un brivido caldo o Un Messaggio d’amore e troviamo qualcosa di meno ambizioso. Sicuramente è un pezzo raffinato, molto Matia, ma a mio gusto personale non da podio. Per assurdo ricorda tanto il periodo Ruggero. VOTO 6,5

    

    

 

          

mercoledì 8 febbraio 2012

0 Generazione 1000 euro (2009)

Il film, firmato da Massimo Venier (Tre uomini e una gamba, Chiedimi se sono felice) racconta la vita di tre trentenni laureati e precari: Matteo (Alessandro Tiberi) matematico che lavora in un’agenzia di marketing, Francesco (Francesco Mandelli) laureato in cinematografia che sta dietro al proiettore e sistema le pizze in un vecchio cinema e infine Beatrice (Valentina Lodovini) laureata in lettere che fa ripetizioni in casa. I tre ragazzi convivono in un appartamento di Milano e sono alle prese con un mercato del lavoro sempre più subdolo, pronto da un giorno all’altro a farti fuori per ridurre l’organico e di conseguenza le spese. Matteo odia lavorare nel marketing e vorrebbe insegnare all’università ma nei concorsi passano sempre avanti i raccomandati, Francesco raddoppia i turni di lavoro per riuscire a pagare l’affitto e Beatrice sogna di prendere possesso di una fantomatica cattedra di greco per “insegnare ai brufolosi” ma finisce per fare supplenze a Viterbo. A tutto questo fa da cornice il burrascoso percorso amoroso di Matteo, lasciato dalla sua storica fidanzata e diviso tra la passione per Angelica (una coetanea che ha fatto carriera con astuzia e poco merito) e il sentimento sincero e rassicurante per la sognatrice Beatrice.

La sensazione è che il film sia una buona commedia adatta ad un pubblico under 35 o che comunque riconosce nella storia molti punti in comune nella propria vita. Si sorride più che ridere ma in realtà gli unici momenti di vero humor sono quelli che vedono protagonista Francesco Mandelli (particolarmente ispirato nel ruolo dello scazzato cronico). Il protagonista Tiberi enfatizza in maniera eccessiva il suo personaggio e non potrebbe essere altrimenti avendo una base solida nel mondo del doppiaggio ma tutto sommato riveste bene la parte del trentenne indeciso sia sul lavoro che nei sentimenti. Insomma diciamo che tutti i protagonisti (tranne il terribile e fuori luogo Villaggio) danno un contributo notevole affinché il film corra via veloce fino ad un banalissimo finale, che in definitiva realizza il sogno che Matteo aveva espresso nei primi minuti di pellicola.

Allora dov’è il problema? Presto detto. Il film racconta in modo poco realistico il mondo del lavoro italiano. Se analizziamo la situazione dei vari personaggi, sicuramente la vita di Beatrice è quella che rispecchia in modo consono il futuro poco roseo del laureato in lettere che si barcamena tra una supplenza e l’altra, ma Matteo e Francesco non possono proprio essere presi sul serio. Matteo in particolare. Lavora a tempo determinato in un’importante azienda, gli viene proposto un avanzamento di carriera e rifiuta perché lui sogna una cattedra all’università. Francesco mette le pizze su un proiettore come se esistessero ancora cinema vecchio stampo e soprattutto come se questo potesse essere ora come ora considerato lavoro. Forse nei sogni del regista che ricorda in questo modo Nuovo Cinema Paradiso, ma nella realtà penso proprio di no. Al massimo un laureato anni 2000 riesce a trovare lavoro in un fast food o in un call center, non in un agenzia di marketing o in un cinema. Sarebbe bello avere il vecchio docente che ti presta un paio d’ore per far lezione all’università ma questo non penso accada spesso nel 2012. Fortuna che verso la fine Matteo ammette che nei concorsi passano solo i raccomandati perché altrimenti ci troveremmo davanti ad un film fantasy.

In ogni caso è un film innocuo che non colpisce e non delude. Un buon compromesso tra un film mediocre e uno discreto. Il cinema italiano ha bisogno anche di questo ma forse i registi dovrebbero mettere meno retorica nei loro prodotti visto che soprattutto nei contenuti amorosi la pellicola ricorda mille altri prodotti americani.

VOTO 6,5

sabato 4 febbraio 2012

0 La porta sul buio. Il vicino di casa (1973)

Il vicino di casa è il primo di una serie di quattro episodi che compongono la miniserie televisiva La porta sul buio, curata e prodotta da Dario Argento.

Una giovane coppia prende in affitto un appartamento vicino al mare situato in una palazzina che al piano superiore ospita un’altra coppia. Poco prima del loro arrivo nella nuova casa, l’uomo del piano di sopra uccide la moglie con la cintura dell’accappatoio e dimentica di chiudere l’acqua del rubinetto della vasca. I due giovani sposini più neonato una volta arrivati si accorgono della perdita nel soffitto e decidono di salire dai loro vicini. Il marito assassino si è allontanato un momento e ha lasciato la porta aperta, così come se fosse normale, i due entrano e scoprono l’atroce delitto. Cercano di scappare prima che l’uomo ritorni ma la macchina ha le ruote davanti incastrate in una fossa di sabbia e così sono costretti a rimanere in casa. Peccato però che uno dei due abbia lasciato l’accendino di sopra…così proprio mentre l’assassino ritorna, il marito rimane bloccato come un topolino curioso nell’appartamento del vicino. L’uomo capisce senza troppe difficoltà che i due hanno scoperto il delitto e decide di ucciderli entrambi appena fatto giorno. Ci riuscirà?

Il finale del film è perfetto, geniale, una lampadina accesa in una stanza buia. La via di salvezza offerta dal personaggio che non ti aspetti, quello che ti ha fatto persino pensare “ma era proprio necessaria la sua presenza in un film come questo? sembra più d’intralcio che altro”. E invece…

Che dire, a me questo episodio ha messo i classici brividi che solo un thriller anni 70 può suscitare con questa immediatezza e con pochissimi mezzi a disposizione. Naturalmente durante l’ora di girato ci si chiede più volte il perché di certi comportamenti illogici ma poi si finisce per amare questi prodotti proprio per la loro illogicità, strumento basilare per creare il giusto pathos. La recitazione è buona per un film di genere come questo: poche battute, ironia e rapido passaggio da uno stato d’animo di sfida ad uno di vero terrore. La donna si dimostra senz’altro più intelligente del giovane marito che in realtà è l’unico responsabile della brutta fine che gli aspetta. Divertente l’inserto di spezzoni di grandi classici dell’orrore e assolutamente geniali gli stacchi di macchina che inquadrano sempre più da vicino un particolare che sarà funzionale alla prosecuzione della storia (uno fra tutti l’accendino).

VOTO 8 

mercoledì 1 febbraio 2012

0 L’uomo in più (2001)

1980. Napoli. Paolo Sorrentino racconta la storia di due uomini omonimi (si chiamano entrambi Antonio Pisapia) all’apice del successo che per sfortunati (o voluti) casi della vita finiscono per perdere quella fama effimera costruita nel corso degli anni. C’è Antonio Pisapia il calciatore, entrato nell’immaginario collettivo come colui che realizzò un gol in mezza rovesciata portando la sua squadra ad un passo dalla zona Uefa, lo stopper capace di segnare e onorare la maglia. Antonio rifiuta di truccare una partita e i compagni di squadra per tutta risposta gli rompono i legamenti facendo calare il sipario sulla sua carriera da calciatore. Ma l’uomo non si abbatte e prende il patentino di allenatore a Coverciano, rassicurato dal presidente della sua squadra sul fatto che avrebbe fatto parte dello staff tecnico. Antonio escogita moduli calcistici all’avanguardia, abbandonando il catenaccio e il gioco di rimessa, per disegnare una squadra temeraria con la difesa alta e quattro punte. Tutta la sua vita è questo: mettere in pratica il suo modulo di gioco ma la telefonata per allenare la sua vecchia squadra non arriva mai e così all’ennesima porta in faccia conclude la sua vita con un colpo di pistola su un campetto da calcio.

Poi c’è Tony Pisapia (Tony Servillo) il cantante. Il tombeur de femme che canta canzoni neomelodiche davanti a platee gremite di fans, rappresentate soprattutto da donne che vanno a trovarlo in camerino a spettacolo concluso. Una di queste è una minorenne, ma Tony (esaltato dal successo e dalla cocaina, uno sbandato senza speranza) non lo sa o non se ne cura e così dopo una sveltina sul letto della figlia (che studia all’estero e odia il padre) viene denunciato per abusi sessuali e così inizia la sua parabola discendente. Il suo manager ormai lo tratta come una pezza da piedi e le uniche serate che gli propone sono le sagre di paese, a cui Tony comunque partecipa constatando miseramente che il suo pubblico è rappresentato da una decina di persone, per altro poco interessate. Capisce così che gli è rimasta solo la cocaina e la passione per la cucina di mare, che ha imparato nella sua prima esperienza in carcere dieci anni prima. Vorrebbe aprire un ristorante ma anche questa speranza sfuma così come la Ferrari Testarossa che è costretto a vendere per vivere.

Il regista ha creato un vero e proprio capolavoro, un film amaro ma anche piuttosto realistico perché come non immaginarsi che la stessa sorte dei due Antonio non sia stata vissuta da altri calciatori o uomini di spettacolo del passato? Il film parla di come il successo non serva a niente, di come sia una parentesi nella vita che rende solo più amara quest’ultima, vissuta nel ricordo e nel rimpianto di qualcosa che non c’è più. Antonio il calciatore è una figura onesta, fin troppo, ossessionato comunque da un sogno che rincorre fino a sfiancarsi, fino a capire che la vita senza il calcio non è niente. Fondamentalmente non gli importa della moglie che lo tradisce e poi lo lascia, ma solo che qualche società si accorga di lui e lo faccia allenare. Gli viene rinfacciato di essere un uomo triste e perciò incompatibile con un gioco divertente come il calcio. Tony invece è uno che non si arrende ma che allo stesso tempo non sa bene quello che vuole, indeciso se aprire un ristorante o tentare di avere ancora successo come cantante nonostante sia ormai chiaro a tutti (e anche a se stesso) che quella parte della sua vita si è ormai conclusa per sempre. La sua famiglia lo odia, mentre lui nel suo modo un po’ vigliacco e indifferente li ama tutti, in particolare sua madre. Alla fine compie un gesto estremo, uccide per vendicare qualcuno che nemmeno conosce ma in cui si rivede: un uomo a cui hanno spazzato via i sogni. Lui ama la libertà sopra ogni cosa ma negli ultimi minuti di film lo vediamo seduto ad un tavolo angusto a mangiare pesce cucinato da lui con altri compagni di cella. Finalmente appare contento, sinceramente e totalmente.

Che bel film, un film sincero, maturo e allo stesso tempo scorrevole, con un Tony Servillo fuori dall’ordinario, un gigante di bravura, un attore che sta facendo grande il nostro cinema italiano. L’atmosfera anni 80 c’è tutta, tra vestiti femminili sconcertanti e giovani uomini con i baffi. L’effimero di quegli anni si rispecchia in particolar modo nelle feste esclusive, nelle discoteche come luogo di incontro e nelle strisce di cocaina che abbondano in tutto il film. Per me uno dei migliori film italiani degli ultimi trent’anni.

VOTO 8,5      

 

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