giovedì 31 maggio 2012

0 Abenobashi–Il quartiere commerciale di magia (2002)

Beh che dire, questo è il classico anime che o si ama perdutamente o si odia cordialmente…io però giunta alla visione dell’ultima puntata mi trovo un po’ in una via di mezzo tra l’entusiasmo e la perplessità. Diciamolo subito, non è roba per patiti di trame lineari in quanto si presenta fin da subito come un insieme di matasse inestricabili che trovano compimento nelle fantasie sempre più assurde del giovanissimo protagonista maschile, Sasshi, capace di creare mondi paralleli per sfuggire alla realtà destinata a portare con sé solo tristezza e morte. La sua compagna di viaggio è la sua amica d’infanzia Arumi, una bambina molto matura per la sua età che vorrebbe tornare al mondo reale, non immaginando che solo rimanendo in una dimensione parallela può sfuggire al dolore per la perdita dell’amatissimo nonno. Sasshi infatti inizia a creare mondi di fantasia proprio a partire dal momento in cui il nonno dell’amica sta cadendo dal cornicione del proprio ristorante e ci riesce anche perché il quartiere dove vivono, Abenobashi, è carico di potere magico, assicurato dalle figure di quattro animali disposte a formare una croce proprio in concomitanza di alcune attività commerciali (che tra l’altro sono in via di fallimento). Così Sasshi sfrutta tutta la sua fantasia di bambino per creare mondi pieni di personaggi particolari che altri non sono che i suoi familiari e i suoi conoscenti che si muovono in universi medievali, cinematografici, preistorici e chi più ne ha più ne metta. Nell’anime trova ampio spazio la parodia di serie animate arcinote ma anche di celebri film e manga, in una sorta di ironico e simpatico omaggio da parte della casa di produzione Gainax verso prodotti che hanno fatto la storia dell’animazione nipponica ma anche verso simboli di intere generazioni. Il modo di esprimersi dei protagonisti poi è particolarmente astruso e non immediatamente comprensibile, bisogna abituarsi e alla fine goderne perché davvero rappresenta un di più che impreziosisce questo stranissimo anime fatto di linguaggio colorito, seni prosperosi in bella vista e riferimenti sessuali come se piovesse.

In conclusione, si può dire che Abenobashi rappresenta un modo di fare animazione veramente originale ma che proprio per questo può non piacere al grande pubblico. Sicuramente ci sono alti e bassi nel corso degli episodi, nel senso che alcuni sono gradevoli e scoppiettanti, altri semplicemente lenti e poco ispirati. Bellissimo comunque il finale che rende giustizia ad una trama che stava prendendo una piega decisamente drammatica. Alla fine Sasshi riesce a far felice Arumi seppur rinunciando ad una parte importante della sua infanzia in quanto solo con poteri maggiori, garantiti dal suo alter ego adulto, può creare una realtà in cui la morte non arriverà mai e dove lui godrà sempre del sorriso giovane di Arumi.

VOTO 7   

domenica 27 maggio 2012

0 Dark Shadows (2012)

Venerdì sera tappa obbligata allo Space Cinema per vedere dopo tre lunghe settimane di attesa l’ultimo lavoro di Tim Burton. Non stavo benissimo per via di un piatto di penne all’arrabbiata (direi meglio all’incazzata nera) pieni zeppi di aglio frantumato e perciò invisibile e (ri)perciò ancor più letale. La mia soglia di attenzione era piuttosto bassa nella prima parte del film poi si è improvvisamente risvegliata grazie al maggior ritmo della seconda, ricca di bellissimi effetti speciali e di colpi di scena a ripetizione. Diciamolo subito: non è un film che ti tiene incollato alla poltrona. Così come non lo è stato Alice in Wonderland.

Parliamoci chiaro, Tim Burton è un regista sorprendente e apprezzato dal grande pubblico nonostante il suo stile decisamente surrealista. Piace alla critica e al popolo ma secondo me sta perdendo il suo tocco magico. E non solo lui.  In questo film Burton plagia se stesso e Johnny Depp rifà Jack Sparrow in versione vampiresca. La trama è scontata e per noi italiani i riferimenti sono assolutamente sconosciuti visto che da noi la serie televisiva omonima non è mai arrivata. Il cast è l’unica cosa veramente buona del film, insieme naturalmente al trucco e ai mirabolanti effetti speciali.

Ecco, devo proprio dire che Depp non mi ha convinto, sembrava intrappolato nella figura del pirata che l’ha portato all’attenzione del grande pubblico, l’ho trovato anche abbastanza rigido e poco in palla. E peggio ancora il cerone non è riuscito per niente a mascherare gli anni che passano e i suoi quasi 50 anni si vedono ahimè tutti. Pensate che parla una fan del suddetto attore (fin dai tempi del mitico 21 Jump Street) ma quando si deve essere oggettivi le passioni si devono mettere da parte e parlare fuori dai denti.

Anche Helena Bonham Carter non ha dato una grande prova di sé ma tutto sommato la sua parte era decisamente marginale rispetto ad altre perciò si può perdonare una piccola defaillance di una grande grandissima attrice.

Le punte di diamante a mio modo di vedere sono due, due splendide donne che hanno risollevato le sorti di un film molto modesto: la bellissima Eva Green e l’ipnotizzante Chloe Moretz. La prima assolutamente perfetta nella parte della strega e la seconda sorprendente nei panni di un’adolescente annoiata degli anni 70. Sexy entrambe e piene di grinta (indimenticabile la trasformazione di Chloe in lupo mannaro), dieci ma che dico cento spanne sopra la protagonista femminile interpretata da un’anonima e francamente inutile Bella Heathcote.

Non so che aggiungere, penso davvero che Burton e Depp dovrebbero separare per un po’ le loro strade o forse aspettare una sceneggiatura assolutamente originale perché si è capito che le rivisitazioni di classici non danno decisamente buoni frutti. Si dovrebbe ripartire da un Edward mani di forbice per ricreare quella magia che si è un po’ persa per strada, forse per colpa delle troppe luci di Hollywood.

Un’occasione mancata.

VOTO 6,5        

martedì 22 maggio 2012

0 Transformers (2007)

Quante frasi fatte nel corso di due lunghe ore di film! Questa è la prima netta sensazione che ho avuto arrivata ai titoli di coda. Capisco che una mega produzione come questa si senta in dovere di coniare frasi che rimangano nella storia ma l’addetto ai dialoghi poteva decisamente fare meglio. Per non parlare del vocione contraffatto assegnato a Optimus Prime, identico a quello di tutti i capitoli dell’Enigmista e appartenente al doppiatore Alessandro Rossi. A parte tutto questo, che alla fine non è poi così determinante per decretare la buona o la cattiva riuscita di un film, il resto è decisamente godibile anche se ovviamente non offre grandi elementi di originalità. Ci troviamo davanti al solito grande pericolo che corre il nostro amato e bistrattato pianeta Terra, anche in questo caso minacciato da un attacco alieno. La differenza sta nel fatto che non abbiamo alieni dalla pelle verde e dagli occhi a mandorla, bensì dei robot capaci di trasformarsi in vari mezzi di locomozione ma anche in piccoli oggetti elettronici. Abbiamo i buoni capeggiati appunto da Optimus e i cattivi guidati da Megatron. Gli uni contro gli altri per la difesa e la conquista della Terra. In tutto questo, come nella tradizione ormai consolidata dei film di fantascienza, abbiamo un eroe umano, in questo caso il giovane Sam Witwicky (Shia LaBeouf) discendente di un grande esploratore che per primo era entrato in contatto con i robot nell’Artico. Sam ha ancora con sé gli occhiali del trisavolo e non sa che contengono la mappatura del luogo in cui si trova un cubo, All Spark, carico di energia, necessaria per conquistare la Terra e ridurla schiava della tecnologia aliena. Il ragazzo entra casualmente in contatto con i robot acquistando una vecchia Camaro gialla che in realtà non è altri che Bumblebee, un soldato della squadra guidata da Optimus. Alla fine Sam si trova al centro dell’interesse dell’esercito americano, dei Decepticon (i cattivi) e degli Autobot (i buoni).

Il film scorre via tra inseguimenti, combattimenti, alcune gag (alcune delle quali particolarmente riuscite) e tanti buoni sentimenti. LaBeouf (abbastanza sopravalutato) rappresenta il solito antieroe un po’ sfigato che grazie a questa fantastica avventura riesce a conquistare la bella di turno, in questo caso una patinatissima Megan Fox (decisamente troppo perfetta per risultare credibile).

Le atmosfere sono molto anni 80, come del resto si richiede ad un film che prende spunto da oggettistica risalente a 30 anni fa. A me almeno ha dato questa impressione. Mi ha ricordato alcune pellicole di fantascienza del tempo, come per esempio War Games o anche Terminator, ovviamente senza quel fascino assoluto di assistere ad uno spettacolo originale e mai visto prima. Insomma, per tirare le somme, il film è un prodotto ben fatto con grandi effetti speciali e un uso magistrale della motion capture. Pecca un po’ troppo di buonismo e drammaticità mentre i momenti comici (a mio modo di vedere quelli più riusciti) sono relegati giusto a qualche veloce sequenza. Mi sembrano immotivati (se non per fini meramente economici) i due sequel che comunque hanno avuto un ottimo riscontro al botteghino, segno innegabile dell’interesse che ancora suscitano i robottoni nell’immaginario collettivo.        

VOTO 6,5

martedì 15 maggio 2012

0 La prima notte del Dottor Danieli…(1970)

 Sembra incredibile per noi dell’era del Duemila accettare che questo film sia stato il terzo più visto nell’anno del Signore 1970. Ok che la commedia sexy tirava come un treno ma diciamo che a tutto ci dovrebbe essere un limite.

Questo film, scritto e diretto da Giovanni Grimaldi, non è altro che una di quelle vecchissime barzellette sporche che ti raccontava il vecchio zio o il compagno di scuola deficiente. Nient’altro che luoghi comuni e situazioni grottesche. Possibile che gli spettatori italiani di 40 anni fa sprecassero le loro lire per spiare nella camera da letto di Lando Buzzanca? Evidentemente hanno poi trasmesso i geni ai figli e ai nipoti che riempiono le sale per i Soliti Idioti.

Buzzanca rappresenta nell’immaginario del tempo il Maschio Italico, siciliano, castigatore di donne e baffuto. Ci manca solo la scorreggia e il mandolino e abbiamo completato tutti i luoghi comuni sugli italiani. In questo caso, interpreta il Dottor Danieli, industriale delle “patatine”…giusto per non farci mancare il facile doppio senso. Dopo tante avventure sessuali decide di convolare a nozze con Elena, una bella ragazza ancora illibata. Tutto perfetto fino alla prima notte di Luna di Miele: passata in bianco in quanto Carlo Danieli non riesce a svolgere i suoi doveri coniugali per la prima volta nella sua vita. E così tutte le notti successive, mentre nella stanza accanto, una coppia di freschi sposini (lui ottantenne lei trentenne) ci danno dentro di brutto. Essendo in Sicilia le voci sull’impotenza di un siciliano fanno scandalo e così tutto il paese, ma che dico tutta la regione, spettegola sui problemi erettili dell’uomo che da parte sua cerca in tutti i modi di risolvere la situazione. Intanto la madre della sposa arriva in albergo per controllare che la figlia perda la verginità e tenga alto il nome delle donne di famiglia, famose per darla via con scariche ad alto voltaggio. Anzi, addirittura, la suocera si sincera durante un lento che il marito della figlia abbia tutto a posto lì nelle parti basse.

Questo è il succo del film. Le donne sono tutte sessuomani oppure schiave dei mariti che vanagloriosi dicono “dopo il viaggio di nozze non è riuscita a stare in piedi per un pezzo”. Che dire? Quanta finezza in questo regista!

Il film non fa ridere, non fa sorridere e forse l’unica nota positiva sono i bei paesaggi siciliani che ci vengono mostrati durante le gite fuori porta dei due novelli sposi. Divertente anche la nota di costume rappresentata dalle atmosfere anni 60/70 con il classico albergo con annessa micro discoteca e l’acqua minerale rigorosamente in bottiglia di vetro. Tutto il buono finisce qui.

Un must per i numerosi fans di Buzzanca, assolutamente inutile e fastidioso per tutti gli altri.

VOTO 4 

domenica 13 maggio 2012

0 Signori, in carrozza! (1951)

Vincenzo (Aldo Fabrizi) svolge il mestiere di conduttore ferroviario sulla tratta Roma Parigi e proprio in queste città conduce due vite parallele: a Roma c’è la moglie con i due figli adolescenti e a Parigi la sua amante. Ovviamente nessuna delle due donne sa dell’esistenza dell’altra e questo permette a Vincenzo di vivere liberamente la sua relazione extraconiugale. La moglie è una donna poco attenta alle faccende domestiche e soprattutto troppo condiscendente nei confronti di suo fratello Gennaro (Peppino de Filippo), ormai stabilitosi in via definitiva a casa del cognato che non lo sopporta più. Per Vincenzo Parigi e Ginette rappresentano la vita ideale, quella che non è riuscito a realizzare nella sua città d’origine ed è proprio per questo che accetta senza problemi di trasferirsi per sempre nella capitale francese, peccato che lo segua anche Gennaro. Da questo momento in poi inizieranno tutta una serie di equivoci…

Classicissima commedia italiana anni ‘50 con due grandi mattatori del periodo: un eccezionale Fabrizi e un sempre divertente De Filippo (anche se un po’ monotono nella caratterizzazione dei suoi personaggi). La coppia funziona a meraviglia con un bel contraltare tra l’atteggiamento burbero di Vincenzo e quello furbo e fastidioso di suo cognato Gennaro, sempre presente in ogni momento topico del pover’uomo, incapace di liberarsi in via definitiva di questa noia a due gambe. Le situazioni comiche sono tante e tutte ben riuscite ma non manca anche un velo di malinconia che cala soprattutto nel finale quando Vincenzo sceglie di stare con sua moglie pur sapendo di non amarla. In fondo parliamo degli anni ‘50 quando certe scelte erano quasi obbligatorie non esistendo ancora il divorzio e soprattutto rivolgendosi ad un pubblico di famiglie che poco avrebbe gradito un finale più spiazzante.

VOTO 7 

venerdì 11 maggio 2012

0 Anche libero va bene (2006)

Opera prima di Kim Rossi Stuart. Meravigliosa, potente e allo stesso tempo delicata e profondamente intima. Eppure passata praticamente inosservata, come capita troppo spesso ad un certo tipo di cinema italiano estraneo alle dinamiche del guadagno e della faciloneria. I pochi che hanno avuto la fortuna di vedere questo gioiello in sala saranno usciti dal cinema con la sensazione di aver assistito ad un film realizzato con cura e modestia, un film denso di significati capace di catturare l’attenzione dello spettatore dal primo all’ultimo fotogramma.

La storia vede al centro una famiglia romana composta da un giovane padre, Renato (Kim Rossi Stuart) e dai suoi due figli, Tommi e Viola. Solo dopo un po’ di vissuto capiamo che esiste anche una madre che ha lasciato la sua famiglia perché terrorizzata dal vivere una vita normale, attratta dalle seduzioni di un ricco portafoglio maschile e in generale dalla libertà di donna single. I tre si barcamenano come possono, vivendo una vita strana, a metà tra le soddisfazioni di Viola, una ragazzina estroversa e allegra, e l’introversione di Tommi, un bambino vessato da un padre affettuoso ma anche duro, intransigente e rancoroso nei confronti di una vita che l’ha preso a calci in culo troppe volte.

Il film potrebbe riguardare Tommi, soprattutto il modo in cui un bambino della sua età vive una situazione famigliare difficile e controversa, ma in realtà la pellicola si sofferma tanto anche su suo padre, mettendo a confronto due mondi lontanissimi eppure vicini. Tommi agli occhi di Renato è un ragazzino con grandi potenzialità che dovrebbe usare per sfondare nel mondo del nuoto, sport a dire dello stesso Renato superiore al calcio, sport che Tommi sogna di praticare ma che non piace al padre. Renato lo obbliga ad essere il migliore, a vedere gli altri come degli sfigati, proprio come lui stesso vede il mondo che lo circonda e che lo respinge, colpevole di non vedere le sue grandi doti di cameraman. Ovviamente Tommi risponde a tutto questo con terrore e passività, legato al padre ma incapace di capire perché non può fare quello che fanno tutti i suoi compagni di scuola. Gli unici momenti in cui il bambino si sente padrone della sua vita sono quando di nascosto da tutti sale sul tetto del proprio palazzo per osservare la vita che si svolge dietro le finestre del quartiere. Condivide questo suo piccolo mondo con Antonio, un bambino del palazzo, che rappresenta per lui tutto quello che vorrebbe avere ma che può solo guardare: una famiglia composta da papà e mamma, la settimana bianca, un padre che condivide col figlio ogni momento libero, in generale la stabilità e la serenità del quotidiano. Anche il ritorno imprevisto della madre mette Tommi in una situazione complicata, diviso com’è tra la diffidenza e l’amore per una donna che l’ha messo al mondo ma che non l’ha cresciuto. E’ consapevole più della sorella maggiore che il ritorno della madre è solo una breve parentesi ma soffre in silenzio, lasciando uscire il dolore solo negli ultimi istanti di film, come un sospiro trattenuto per troppo tempo.

Gli attori sono tutti straordinari, in particolar modo Kim Rossi Stuart, perfetto nella parte del padre nevrotico, coraggioso nel mettere in bocca al suo personaggio anche una scomodissima bestemmia, funzionale comunque alla situazione di disperazione, rabbia e impotenza che prova Renato in quel frangente. Bravissimo anche il giovane Alessandro Morace, pochissime battute a fil di voce ma espressività che comunicava più di mille parole, con uno sguardo profondo che faceva a gara con quello di Stuart. Perfetti comunque nella parte del padre e del figlio.

La regia è semplice, elementare, senza fronzoli, perfetta per una storia italiana dei nostri giorni. Nessun messaggio subliminale tranne il sogno erotico dello stesso Tommi che comunque vuole comunicare il passaggio alla fase puberale del ragazzino, intimidito e incuriosito dalle avance quasi sessuali della sorella e della madre.

martedì 8 maggio 2012

0 L’ultima vacanza (2006)

Immaginate di avere solo tre settimane di vita e tanti, troppi sogni nel cassetto…cosa fareste? Georgia (un’esplosiva Queen Latifah), addetta alle dimostrazioni culinarie in un grosso centro commerciale dopo aver ricevuto una diagnosi che non lascia scampo decide di fare il viaggio dei suoi sogni, superando in questo modo il dramma di una malattia incurabile e con la volontà di uscire di scena con stile, lusso e realizzando i desideri di una vita.

Il film è una tipica commedia americana leggera leggera, con interpreti adeguati e simpatici. C’è persino Gerard Depardieu nei panni di un grande chef che lavora nelle cucine meravigliose dell’hotel di lusso dove soggiorna la stessa Georgia, sua grande estimatrice.

Non si ride da spanciarsi ma si sorride più che volentieri, grazie soprattutto alle performance da vera mattatrice della protagonista, attorno alla quale è stato creato tutto il film. In America questo genere non viene quasi mai premiato, si preferisce una certa volgarità giovanilistica e di fatti il film è stato un flop ai botteghini nonostante sia un prodotto discreto e godibilissimo. Certo la tematica non è certo originale ma in fondo è sempre più difficile trovare qualche nuova idea da sviluppare.

VOTO 7 

lunedì 7 maggio 2012

0 Hotel Dusk–Room 215 (Nds)

Hotel Dusk Room 215 è a prima vista una delle più classiche avventure “punta e clicca” solo che al posto del mouse dobbiamo affidarci allo stylus del nostro fedele Nds (che effettivamente svolge egregiamente il suo compito).

Il gioco sembrerebbe un avventura grafica sui generis finché non si superano i primi minuti di gioco e allora ci si rende conto di trovarsi davanti a qualcosa di diverso che potrebbe risultare sgradito a molti cultori e a tantissimi videogiocatori poco disposti a sorbirsi intere fasi di dialogo e di interrogatori serrati. Il tutto però è abbastanza funzionale alla trama visto che impersoniamo Kyle Hyde, un ex poliziotto della polizia di New York diventato agente di commercio per superare il trauma di essere stato tradito dal suo compagno di squadra, Bradley. Proprio quest’ultimo è il chiodo fisso di Kyle che non ha mai rinunciato alla possibilità di rintracciarlo per avere finalmente una risposta ai suoi perché. In ogni caso, l’agenzia dell’ex sbirro ha prenotato per lui una stanza in una catapecchia di albergo chiamato Hotel Dusk perché proprio lì Kyle deve recuperare due oggetti richiesti dalla clientela dell’agenzia stessa. Da qui capiamo che dietro le mentite spoglie di un semplice rappresentante si cela un abile procacciatore di oggetti smarriti. In questo caso si tratta di una rivista e di una strana scatoletta rossa che si trovano da qualche parte nell’albergo. A Kyle viene data proprio la camera 215 del titolo che secondo una diceria popolare avvererebbe i desideri di chi ha la fortuna di soggiornarci. Nella prosecuzione della storia vediamo come in realtà l’albergo celi moltissimi segreti e sia in realtà un luogo in cui tutti gli ospiti sono legati tra di loro da fili apparentemente invisibili ma che messi insieme formano un’immagine complessa che piano piano si svelerà davanti ai nostri occhi.

 

Il gioco è diviso in capitoli (10) dove ognuno copre un segmento del giorno fino ad arrivare alla mattina del giorno dopo. Per superare ogni capitolo/livello sarà fondamentale compiere ricerche all’interno dell’albergo, utilizzare gli oggetti che troviamo o che già possediamo (spesso con mini giochi dove è fondamentale utilizzare il pennino in modo fantasioso) e infine parlare parlare e ancora parlare, anzi diciamo pure che per superare indenni un capitolo bisognerà fare le domande e le supposizioni giuste se non si vuole incorrere in un tremendo Game Over che avrà come conseguenza la lettura di tutte le sezioni di dialogo che ci hanno portato fino a quel punto. La presenza di un Game Over è un elemento di forte novità in un’avventura grafica e a mio parere non particolarmente gradevole in quanto come ho appena detto si concretizza dopo un banale errore nella scelta della domanda da porre all’interlocutore. Infatti, a volte la scelta è abbastanza ovvia e logica, a volte è lasciata al caso e non dettata da elementi raccolti durante il nostro peregrinare nell’hotel in cerca di informazioni. Per il resto, la trama fa acqua da tutte le parti e si presenta oltre modo stravagante (vedi soprattutto le storie dei singoli ospiti dell’Hotel Dusk), non coinvolge se non a brevi tratti nelle sequenze di matrice esplorativa o quando ci viene richiesto di risolvere dei (semplici) puzzle.

La storia si svolge negli anni ‘70 e in effetti sono pochi gli elementi che ci fanno capire questo, tratto tipico dei giochi nipponici poco interessati ad una ricostruzione fedelissima degli ambienti e più interessati all’intreccio e ai lunghissimi dialoghi. Sotto l’aspetto puramente tecnico il gioco è molto stilizzato con però un’interessante scelta di rendere i personaggi simili a fumetti in bianco e nero. La grafica è spartana ma chiara ed è ciò che si richiede ad un gioco come questo.

Sotto il comparto sonoro diciamo che le musichette sono all’inizio carine e divertenti poi diventano semplicemente fastidiose. Ognuna è associata ad un personaggio e ad una particolare situazione e se vogliamo le possiamo scegliere come accompagnamento musicale nel bar dell’albergo grazie all’uso di un juke box.

La longevità è ai minimi termini nel senso che non ci sono ostacoli insormontabili e inoltre la storia si svolge in un ambiente piuttosto ridotto evitando i classici giri a vuoto tipici dei punta e clicca. Diciamo che nel giro di una decina di ore avrete risolto il caso avendo la netta sensazione che comunque non tutto sia stato chiarito.

In conclusione Hotel Dusk non è malaccio ma presenta molte falle, promette ma finisce per non mantenere ma è comunque un buon prodotto per trascorrere in modo diverso qualche ora sul divano o sdraiati a letto. Assolutamente sconsigliato a chi non ha pazienza.

VOTO 6,5      

domenica 6 maggio 2012

0 Xier Cagliari

Xier è un self service (o wok) di cucina italiana (scritto bello grande nella locandina all’ingresso) e cinese (scritto in piccolo). Si trova in via Santa Gilla a Cagliari ed è facilmente raggiungibile sia con i mezzi pubblici che con le quattroruote, visto l’ampio parcheggio gratuito presente nelle vicinanze. La caratteristica di questa grande tavola calda è il fatto di offrire a 12 euro (a pranzo) tutto quello che un essere umano riesce a ingerire senza alcun limite (resta sottinteso il fatto che non è concesso lasciare cibo nel piatto…che secondo alcuni andrebbe poi messo in conto). Le bibite invece sono a parte, ma attenzione perché a volte l’acqua è compresa e altre volte no, sa solo Dio il perché.

Devo dire che io vado spesso e volentieri perché rappresento la categoria di persone che amano assaggiare più pietanze e soprattutto adorano poter scegliere la quantità di cibo da mettere nel piatto. Inoltre amo da sempre la cucina cinese perciò il gioco è fatto. Ho provato anche altri Wok in Italia ma devo dire che si equivalgono tutti, in quanto il denominatore comune è cibo senza troppe pretese e un assaggio di sushi (giusto per attirare le masse di gente che ormai non vivono senza pesce crudo..sarà una moda passeggera o vero interesse? Mah, fatto sta che i cinesi ne hanno approfittato con intelligenza e furbizia assoldando cuochi cinesi che stanno dietro ai banconi ad arrotolare riso e alghe..tanto sanno che non sappiamo distinguere un cinese da un giapponese, per cui…).

Chi entra da Xier troverà tante cose che mi permetto di elencare per comodità:

- Gentilezza e cortesia da parte di un personale giovane e scattante (anche troppo a volte)

- Una cameriera cinese che non capisce una mazza di italiano (“che tipi di grappe avete?”…attimo di silenzio spezzato solo dal suono di ingranaggi cerebrali che girano, poi “glappa? sì sì glappa!” “Sì ma che gusti avete?”..silenzio “vuoi glappa? ecco glappa!” va beh ma allora vaff..).

- Banconi di cibo diverso:

   1. Primi (spaghetti piccanti dal sapore altalenante, per esempio ieri chissà perché hanno messo dentro delle bacche orrende che li hanno resi immangiabili; spaghetti di carne e verdure a volte buoni a volte insipidi; pasta con le cozze per l’italiano medio; riso alla cantonese e al curry orribili entrambi)

   2. Involtini primavera (piccoli molto unti non memorabili), ravioli alla carne (buoni), tempura di verdure, calamari fritti e patatine (che dopo poco diventano ovviamente gelide e di pietra).

   3. Sushi che gira in piattini alla mercé di tutti, soprattutto degli indecisi che toccano e rimettono a posto un paio di volte. Il sapore, dopo averne provati altri, è di qualità medio bassa, soprattutto ieri (05/05/2012) era mediocre. Non mi piacciono quelli con un pezzo di strano formaggio all’interno.

   4. Secondi (pollo alle mandorle normale, maiale in agrodolce molto buono, pollo fritto mai provato, spiedini di manzo piccante divini, gamberi saltati molto buoni)

   5. Carne, pesce e verdure da far grigliare: ho provato solo la spigola, i gamberoni e le melanzane. Io sinceramente li ho trovati ottimi, il cuoco è un mago della piastra e utilizza i giusti condimenti per rendere il tutto squisito. Per me questo reparto rappresenta il fiore all’occhiello del ristorante e infatti volendo uno può mangiare solo questo saltando tutto il resto. Il pesce è freschissimo e senza spine, veramente da consigliare.

  6. Niente dessert (a differenza di altri wok) ma fette di ananas e frutta cinese. L’ananas a volte è buono e a volte un po’ troppo maturo ma tutto sommato è un giusto compromesso in assenza di dolce. Ieri, però ho visto troppe mani che sceglievano e rimettevano a posto, non sarà colpa del personale però forse si potrebbe trovare un modo per evitare certe forme di barbarie di casa nostra. Che so, un vetro da sollevare o una pinza per afferrare.

7. La clientela folkloristica. Ieri il campionario era veramente ampio. C’è da ridere o da piangere ma del resto con i prezzi bassi e il quartiere in cui si trova il ristorante non c’è da stupirsi più di tanto. Ecco, diciamo che il sabato aprono le gabbie e tutti gli animali a due zampe con tatuaggi, infradito, pinze in testa, piercing sparsi, minigonne ascellari, tinte di capelli fantasiose, biddi in bella mostra, canottiere con pelo in evidenza, si danno ritrovo tutti qua e offrono spettacoli che senza pagare alcun biglietto si svolgeranno di fronte ai vostri occhi attoniti. A me ha divertito parecchio, ma a qualcuno più borghese di me potrebbe far passare la fame e la voglia di ritornare. Perciò se volete un consiglio evitate il fine settimana.

In conclusione, Xier è un ristorante che offre tantissimo ad un prezzo ridotto, la qualità è davvero altalenante e bisogna dire che è una caratteristica che si ritrova spesso nei ristoranti cinesi che dopo il botto iniziale decidono di far decadere la cucina e lesinare sulla qualità. Una volta ho trovato la pasta scotta e tutta tagliuzzata, roba da mani nei capelli ma sono comunque tornata per dare un’altra opportunità. Sicuramente è da provare e riprovare sperando di capitare in un giorno fortunato.

 

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