sabato 31 marzo 2012

0 Un americano a Parigi (1951)

Il Musical, diretto dall’esperto Vincente Minnelli, si svolge a Parigi (una finta Parigi riprodotta negli studi cinematografici della Metro) e ha al centro l’atletico Jerry (Gene Kelly), un aspirante pittore squattrinato giunto in Francia dagli Stati Uniti per trovare fortuna come imbratta tele (vista la qualità mediocre delle sue creazioni artistiche). Una sera incrocia lo sguardo con una ragazza che gli fa perdere la bussola, Lise una commessa di una profumeria in centro. Peccato che la procace Lise sia già fidanzata con Henri, uno dei migliori amici di Jerry. I due iniziano una relazione clandestina finché Lise confessa a Jerry che sta per sposare Henri e partire per l’America.

Come in ogni film di scuola Hollywoodiana l’happy end non manca e così tutti felici e contenti vediamo scivolare via i titoli di coda mentre pensiamo “che carino questo film, irreale ma carino”. Perché di carineria parliamo, certo non di alta scuola. La trama è flebile come acqua gasata con limone e le quasi due ore di montaggio sono funzionali alle evoluzioni istrioniche di Gene Kelly e della giovane partner di turno Leslie Caron. I due volteggiano come libellule in volo per tre quarti di film, ma soprattutto nella mastodontica e elefantiaca sequenza finale prima del lieto fine. Questa è effettivamente la parte meno riuscita del film che in realtà veleggia benissimo finché è supportata da quello humor americano onnipresente nelle commedie anni 50 e qui ben rappresentato dal sagace e cinico Oscar Levant, nella parte dell’aspirante pianista incallito fumatore e bevitore di caffè. Lo zucchero, però, invade tutto e lo spettatore incauto finisce per ammalarsi di diabete mentre osserva l’amoreggiare dei due piccioncini e la recitazione enfatica e buonista di Georges Guétary, cantante di cabaret e fidanzato cornuto.

Insomma questo musical non raggiunge l’apice del genere al quale appartiene ma nonostante ciò ha incamerato numerosissimi premi Oscar che ne fanno una pietra miliare nel panorama cinematografico statunitense. A mio giudizio c’è di meglio ma rimane comunque un film carino e guardabile, soprattutto da chi ama la danza e le canzoni ogni due per tre.

VOTO 6,5  

martedì 27 marzo 2012

0 The Raven (2012)

Da accanita lettrice di racconti di Edgar Allan Poe mi sono sentita quasi costretta a vedere questo film che ha per l’appunto come protagonista l’ombroso EAP, interpretato dal bravo e diligente John Cusack (in realtà quasi imbarazzato e imbarazzante in questi insoliti panni Ottocenteschi).

La trama è a dir poco semplice: un serial killer sta uccidendo alcuni abitanti di Baltimora ispirandosi ai racconti di Poe, motivo per il quale il granitico e rigido detective Fields chiede proprio l’aiuto di quest’ultimo per cercare di fermare l’assassino che nel frattempo ha rapito Emily, la fidanzata di Poe (in modo da lanciare una sfida al suo scrittore preferito spingendolo a scrivere in modo dettagliato i particolari della vicenda sul giornale locale).

Il film si apre con Edgar che seduto su una panchina guarda verso l’alto con uno sguardo prossimo alla morte e si chiude allo stesso modo, compiendo una rotazione di 360 gradi che tende a spiegare l’ancora insolita morte improvvisa dello scrittore americano. Ovviamente il regista dà una sua interpretazione a dire il vero abbastanza credibile e coerente rispetto al racconto che egli stesso mette in piedi. Il problema però sta proprio nel modo un po’ infantile e dozzinale in cui è stato realizzato il film, sempre appeso ad un filo di illogica coerenza narrativa. Mi spiego: non c’è stata cura nel delineare la psicologia del killer né tantomeno nel descrivere il suo modus operandi. Noi spettatori, infatti, non riusciamo ad anticipare le mosse del killer proprio perché è impossibile farlo. La sua logica e i suoi movimenti sono chiari solo a Poe che però sembra arrivare alla soluzione con troppa facilità e così il film si brucia senza darci il piacere di assaporarlo. Un peccato perché la trama dava segnali positivi percepibili dai fan ma anche dai non addetti ai lavori.

Non lo consiglierei neanche ad un appassionato visto che i racconti di Poe citati nel film sembrano solo un astuto pretesto per richiamare il pubblico nelle sale ormai sempre più vuote dei nostri cinema. Un’occasione mancata.

VOTO 5,5

domenica 25 marzo 2012

0 Un amore a Roma (1960)

Il film, che prende ispirazione dall’omonimo romanzo di Ercole Patti, parla di amore e tradimento. Il protagonista è Marcello, un rampollo della Roma bene, che ci viene presentato come un uomo piacente che non vuole impegnarsi, fiero della sua libertà e attratto dal sesso senza impegni. La sera stessa che lascia la sua ragazza Fulvia, conosce per puro caso Anna, una ragazza che aspira a fare l’attrice. Anna e Marcello finiscono a letto insieme in modo molto naturale e immediato e entrambi decidono in modo consensuale di non rivedersi. Passa il tempo e Marcello continua la sua vita in un continuo tira e molla con Fulvia, irrimediabilmente innamorata di lui e perciò sempre disponibile. Una sera Marcello rivede Anna e capisce di sentirne la mancanza, così segue le sue tracce fino al teatro di posa dove sta girando un film con la regia di Vittorio de Sica. Da quel momento i due intrecciano una relazione stabile e Marcello si sente per la prima volta felice e appagato, convinto di aver trovato la donna della sua vita (intelligente ma allo stesso tempo ingenua). Piano piano però si rende conto che Anna è molto diversa dall’immagine che lui stesso aveva idealizzato, quella di una ragazza sincera e innamorata. Anna infatti lo tradisce ripetutamente giustificandosi col fatto che lei ha bisogno di essere trattata male per interessarsi a un uomo e ripetendo a Marcello che il suo errore sta nel metterla al centro dei suoi pensieri, perdendo così interesse nella scala di gradimento della donna. Nonostante tutti gli amici di Marcello continuino a dirgli che Anna è una donna facile e perversa, lui continua ad esserne ossessionato e così pur fidanzandosi stabilmente con Eleonora, una brava e ricca ragazza romana, innamoratissima di lui, egli finisce sempre per perdere la bussola ogni volta che rivede Anna, astuta nel continuare a perseguitarlo con la sua presenza, ben consapevole del sentimento che il ragazzo prova per lei. Solo alla fine del film Marcello riesce a liberarsi della sua ossessione, messo di fronte al fatto di aver barattato le cose belle della vita e del suo passato per un amore a senso unico e perciò destinato a far soffrire.

Dino Risi confeziona un film estremamente realistico nel tratteggiare il lato oscuro e violento dell’amore, quella passione che può annebbiarti la mente e renderti cieco davanti al mondo. Marcello incontra una donna che non vuole impegnarsi e che usa il suo potere su di lui per ottenerne vantaggi, sia in termini economici che sentimentali perché Anna rappresenta la classica donna che non vive se non sta al centro dell’attenzione maschile. Il suo fascino sta proprio nel suo essere sfuggente e perciò totalmente diversa da Fulvia e Eleonora, entrambe sinceramente e totalmente innamorate di Marcello che però vede in loro solo dei legami istituzionali che non portano emozioni. Eleonora è pronta a sposarlo e ad annullarsi per lui, ma Marcello non la ama nonostante si sforzi di farlo, consapevole che sarebbe l’unico modo per dimenticare per sempre Anna, il suo grande e sfortunato amore.

Chi di noi non ha provato una passione sfrenata per qualcuno che è stato capace solo di ferirci e regalarci unicamente qualche istante di amore? Penso la maggior parte di noi. Spesso ci innamoriamo di chi non merita e scartiamo a priori chi invece ci ama ma non è capace di suscitarci l’emozione del rischio e dell’assenza di sicurezza. Marcello rappresenta un po’ tutti noi che siamo caduti nella trappola degli amori sbagliati ma c’è anche una sorta di legge del contrappasso nel film, in quanto anche lui è un uomo senza cuore con chi lo ama e riesce ad essere umano e perciò vulnerabile solo con chi lo tratta senza rispetto. In ogni caso è facile immaginarsi che Anna continuerà nel suo modo di vivere libertino e Marcello persevererà nella ricerca della donna ideale. Il finale quindi ce lo possiamo immaginare come vogliamo, ma quelle porte che si chiudono alle spalle di Anna raccontano tutto ciò che c’è bisogno di sapere.

I due protagonisti hanno il volto dei bellissimi Baldwin e Demongeot, lui piacente e sofferto, lei affascinante e leggera.

VOTO 7,5

mercoledì 21 marzo 2012

0 Anni ruggenti (1962)

Siamo negli anni 30, in piena epoca fascista. In un paesino della Puglia si diffonde la voce che sia giunto da Roma un gerarca fascista per fare un’ispezione. I capoccia del luogo, dediti al vizio e al malaffare, decidono di mostrare a questo misterioso visitatore un volto ben diverso da quello reale, dimostrando che nel loro comune i soldi ricevuti dal Duce vengono spesi per opere utili e in linea con i principi fascisti. Ecco allora sorgere dal nulla un finto aeroporto o dei casolari di campagna provvisti di 30 capi di mucche da latte (in realtà sempre le stesse che vengono trasportate di volta in volta nelle tappe visitate dall’emissario statale). Tutti indossano camice nere e cantano Faccetta nera, i ragazzini sono indottrinati a dire in momenti chiave le frasi cardine di Mussolini e insomma tutto il paese viene coinvolto in questa grande recita.

Il tutto però nasce da un grande equivoco, in quanto colui che viene scambiato per gerarca è in realtà Omero Battifiori (Nino Manfredi), un semplice assicuratore che vive con 500 lire al mese, giunto in Puglia per far firmare qualche assicurazione. Nel suo soggiorno viene a conoscenza delle brutture del potere locale, poco incline ad occuparsi dei problemi della gente e maggiormente interessato a sottrarre soldi alle casse comunali per i propri sordidi scopi. Omero è un semplice, un romano che va sempre ad ascoltare i discorsi del Duce ma che grazie a questo viaggio riconosce il vero volto del Fascismo e inizia a capire come gira veramente il mondo in Italia: da una parte i discorsi pomposi di Mussolini e dall’altra la miseria del popolo italiano di cui nessuno sembra occuparsi né a livello locale né tantomeno a livello nazionale. Emblematica la scena finale che lo vede ritornare a Roma su un treno locale: sta per sedersi in uno scompartimento ma appena sente che uno dei viaggiatori sta decantando le imprese di Mussolini, decide di cambiare scompartimento.

Nino Manfredi è un attore straordinario, un italiano che veste il ruolo di un italiano, senza trucchi (tranne il bistrot sugli occhi) e senza inganni: il personaggio che interpreta è un uomo giocoso, un semplice che si diverte a fare le voci finte al telefono per far divertire la madre con cui ancora vive, ama le donne e non si interessa della politica, per lui la vita è fatta di cose semplici e oneste e quando si rende conto di essere stato scambiato per un’altra persona rimane spiazzato perché ha la consapevolezza di aver camminato su bei tappeti di velluto rosso solo per un equivoco e non per la sincera bontà d’animo della gente che ha conosciuto in paese. Non si riconosce nell’alta borghesia pugliese, ma nel popolo che gli ha offerto una brocca di vino e il frutto del sudore del suo lavoro, un popolo che attende speranzoso un aiuto da un capo del governo che non conosce neanche la sua esistenza.

Il film è una commedia ma ha una bellissima chiusa che lo rende improvvisamente serio e pungente: Omero legge la lettera di un anziano che vive nelle grotte. Questi chiede a Mussolini una casa con una finestra, una semplice casa dopo che ha reso servizio alla patria partendo in guerra e rischiando la propria vita.

VOTO 6,5 

venerdì 16 marzo 2012

0 Anima persa (1977)

Dino Risi, uno dei maestri incontrastati del nostro cinema, firma un thriller di tutto rispetto, denso rarefatto e con un Vittorio Gassman da applausi a scena aperta. La parte del folle gli riesce benissimo ma la sua bravura va ben oltre una semplice rappresentazione della follia umana in quanto il personaggio dell’Ingegnere è anche un uomo colto e a lunghi tratti bastardo, soprattutto nei confronti della moglie (?) interpretata da un’allucinata e nervosissima Catherine Deneuve.

Il soggetto, tratto dal romanzo Un’anima persa di Arpino, ha al centro un timido ragazzo di nome Tino che si trasferisce a Venezia a casa di due parenti che non conosce per studiare all’Accademia di Belle Arti. Da subito si rende conto che la grande e bella casa dove trascorrerà il suo soggiorno ha più di un segreto celato dietro le sue mille porte e i continui rumori che provengono dal piano superiore, per lui inaccessibile come in una moderna fiaba di Barbablù. Ma la curiosità è giovane e tremenda, tanto da spingerlo a curiosare nonostante gli avvertimenti della zia e della cameriera, complici in una grande e maestosa farsa. Tino non riesce a raccapezzarsi dello strano comportamento dei due zii e continua a fare domande che per lungo tempo rimangono però senza risposta, fino a quando l’anziana governante non gli mostra chi abita al piano di sopra e allora da lì partono tutta una serie di interrogativi che tengono la tensione del protagonista e degli spettatori a livelli altissimi…

Il film è quanto di meglio possa offrire il cinema di genere nel decennio 1970, in particolar modo tenendo conto del fatto che si tratta di un’opera prima in un territorio sconosciuto per il grandissimo Risi. La scommessa appare vinta nonostante il finale si inizi a svelare ben prima degli ultimi minuti di girato, ma per un pubblico meno scafato risulta a tutti gli effetti un piccolo capolavoro che tiene svegli e col fiato cortissimo.

Come non ammirare poi la rappresentazione di una Venezia bella e brumosa, abitata da personaggi particolari e studenti capelloni e sovversivi (almeno secondo il parere dell’intransigente Ingegnere, amante della vecchio Impero Asburgico e nemico di ogni sorta di progressismo). Il film è comunque complesso e denso di possibili chiavi di lettura, dalla sfaccettata personalità dell’ingegnere e i motivi della sua allucinata follia, alla strana figura femminile che incarna la fine della giovinezza e il lato negativo della donna che arrivata ad una certa età perde l’innocenza che tanto brama Stoltz, amante della purezza di una bambina che non c’è più.

VOTO 7

mercoledì 14 marzo 2012

0 Gardener of Eden (2007)

Il giardiniere del titolo è Adam (Lukas Haas), un venticinquenne che si convince che la sua missione nella vita è quella di spazzare via il male dalla sua cittadina (così come un giardiniere estirpa le erbacce da un’aiuola). Come matura questa decisione? Presto detto. Una notte in preda all’alcol e alla rabbia per essere stato ingiustamente licenziato, decide di picchiare a sangue il primo uomo che incrocerà. Caso vuole che il prescelto sia uno stupratore. La polizia lo ringrazia, lo definisce eroe e il suo viso compare nel quotidiano locale, alimentando sempre più il suo proposito di compiere una grande missione dopo una vita trascorsa tra goliardate e partite a carte con gli amici di sempre. In fondo Adam è nipote e figlio di due reduci di guerra che hanno seguito uno scopo nella vita e lui per non essere da meno fa prendere una svolta similare alla sua grigia vita. Peccato che nella realtà non sia possibile vestire i panni del giustiziere della notte nonostante una ricetrasmittente che intercetta le chiamate alla polizia e una pistola sottratta al padre. Adam finisce per compiere spedizioni punitive che non ottengono l’effetto sperato se non quello di fargli perdere gli amici. Gradualmente il ragazzo si rende conto che tutti i suoi piani stanno andando in malora ma nonostante ciò capisce che può compiere azioni (a suo modo di vedere) giuste anche agendo indirettamente…ed ecco servita la pietanza finale di una pellicola interessante ma senza una robusta ossatura.

Non si sa bene cosa manchi a questo film, parte in quarta ma a metà si trova ad arrancare in prima col motore sotto sforzo e una sottile delusione che aleggia sul povero spettatore non del tutto convinto di volersi sentire nei panni dello strano protagonista. Adam avrà pure buone intenzioni ma il cervello della vecchina raccolto e messo in un bicchiere da fast food non ce lo fa amare particolarmente. E’ una sorta di disturbato mentale con la faccia da rinco, è infantile e illogico. Mena colpi e ne esce vittorioso nonostante la pancia a pipa e le braccia di una cavalletta. Sarebbe stato interessante vedere l’evoluzione fisica del protagonista ma questa strada viene ad un certo punto messa da parte per concentrarsi sulle ronde senza soluzione che compie ogni notte nei quartieri più malfamati di New York, durante le quali non capita assolutamente niente.

Niente ha senso: lo spacciatore che come un gatto del Cheshire gli spiega la vita sbattendogli in faccia la verità e facendolo apparire come un disilluso senza speranza. Gli amici lo guardano con diffidenza perché lo vedono come uno spostato. La ragazza che frequenta è l’ultima vittima dello stupratore che lui stesso ha fermato, ma tra loro non c’è sentimento ma solo un dialogo freddo tra sconosciuti. Persino i rapporti familiari hanno un che di artificioso e fasullo. Insomma, il film sembra solo abbozzato ed è un peccato perché a tratti catalizza l’attenzione dello spettatore spingendolo ad andare avanti con la visione.

VOTO 6

martedì 13 marzo 2012

0 Devilman (1972)

Devilman è un anime composto da 39 episodi che vede protagonista proprio Devilman, un demone che si stabilizza sulla Terra per distruggere l’umanità prendendo le sembianze di un ragazzo chiamato Akira (da lui ucciso insieme al padre). Inizialmente è guidato da un istinto malvagio ma a poco a poco si integra nel mondo degli umani, finendo per innamorarsi di Miki, figlia di un amico di famiglia che l’ha accolto in casa sua. Akira/Devilman è considerato un traditore dalla tribù dei demoni che ciclicamente continua ad inviare sulla Terra dei nuovi mostri per ucciderlo e contemporaneamente annientare più esseri umani possibile attraverso maremoti, incendi, disastri naturali e altre diavolerie. Ma Akira, ormai protettore dell’umanità, interviene subito riprendendo le sue sembianze originali per arginare il pericolo e spazzare via le decine di demoni che gli vengono scagliati contro. Per fare ciò utilizza il tuono, le ali e tutto il suo armamentario che finisce sempre per fargli avere la meglio su chiunque.

Nella vita di tutti i giorni veste poi il ruolo dell’adolescente inquieto, il più delle volte in sella alla sua moto con cui compie evoluzioni impossibili e con cui accompagna a scuola la sua adorata Miki. E’ un ragazzo aitante, ironico e contrario alle regole (infatti in aula continua a mangiare durante le lezioni o a dormire in barba al suo povero professore) ma sempre pronto ad aiutare la sua famiglia. E’ molto umano in questo in quanto non sentendosi il paladino dell’umanità interviene solo per aiutare i suoi cari. Questo fatto unito alla paura che Miki scopra la sua vera identità diventa molto importante soprattutto negli episodi finali, nei quali gli attacchi sempre più forti da parte dei demoni si uniscono al ricatto da parte di questi ultimi di rivelare la verità alla ragazza (unico punto debole di Devilman).

L’anime è molto anni 70 a partire dalle musiche fino ad arrivare al compartimento più strettamente tecnico. Ma ciò che colpisce di più è la crudezza delle immagini, dove non mancano mai i morti e il sangue. Il tutto viene rappresentato però con uno stile molto poco realistico, molto stilizzato e antiquato, forse per non spaventare eccessivamente il pubblico di bambini dell’epoca. Comunque non c’è niente di nascosto o sottinteso, né per le efferatezze dei demoni (a volte ridicoli ma più spesso rappresentati in modo molto inquietante nel classico stile nipponico) né per le scene osé, un altro punto cardine di questi prodotti (mutandine sempre in mostra, professori marpioni, etc…).

Gli episodi seguono sempre lo stesso filo conduttore: il capo dei demoni invia un nuovo rappresentante sulla Terra, effetti negativi sull’umanità, intervento di Devilman, difficoltà nel combattimento e poi vittoria finale. Il tutto a lungo andare risulta monotono ma si va avanti soprattutto per sapere come si concluderà la vicenda (e l’episodio finale soddisfa abbastanza le aspettative dello spettatore). Non è sicuramente il miglior anime degli anni 70 ma è comunque un buon prodotto che si lascia guardare.

VOTO 6,5   

0 Un amore perfetto (2001)

Il 2001 è stato l’anno dei Lunapop e del loro leader Cesare Cremonini, ai tempi arrogante, per niente modesto e perciò evidentemente idolo delle ragazzine. La sua faccia e i suoi capelli con improbabili meches viola comparivano ovunque, persino al cinema, come ci dimostra questo giovanilistico film interpretato anche da una inutile Martina Stella nei panni della ragazza di Ce (Cremonini appunto). La storia è poca cosa: Ce e Berni sono due amici per la pelle che amano le belle donne e detestano le responsabilità, quando incontrano Laura però le loro vite cambiano. Ce riesce a conquistarla ma la fa soffrire per i troppi tradimenti, Berni invece la ama perdutamente ma non vuole tradire l’amico. In mezzo a questo triangolo c’è l’intermezzo rappresentato dalla possibilità di fare quattrini consegnando ad un cubano una strana valigetta che i ragazzi trovano casualmente in una delle camere della pensioncina dove lavora Ce. Insomma possiamo dire un casino pazzesco per voler essere eleganti.

Il regista cerca anche di fare il moderno sperimentatore con l’uso del ralenti e di improvvise accelerazioni delle immagini, ma ahimè il risultato è più vicino ad un brutto video musicale piuttosto che ad un buon prodotto filmico. La trama fa acqua da tutte le parti e forse avrebbe funzionato di più creare un musicarello anni 2000 piuttosto che inserire un’unica canzone dell’album Squerez all’interno di 80 minuti di film, per giunta avulsa dal contesto.

Il cast è quello che è anche se si fa apprezzare Denis Fasolo e inspiegabilmente anche lo stesso Cremonini, nonostante sia la prima esperienza (per la successiva bisognerà aspettare ben dieci anni ma con risultati più convincenti). Martina Stella non sa recitare ora come allora e il ruolo di bella bambolina lo svolge a dovere nonostante la totale inespressività del volto e dei gesti.

Al cinema il film è stato un gran flop e non si fatica a capire il perché.

VOTO 5

lunedì 12 marzo 2012

0 L’amore ha due facce (1996)

Da una parte abbiamo Gregory (Jeff Bridges), docente universitario di matematica, rigoroso ma con un debole per le belle donne e il sesso, dall’altra Rose (Barbra Streisand), anche lei professoressa, con il sogno (quasi accantonato) di trovare un uomo che la ami nonostante il suo aspetto un po’ dimesso.

I due si conoscono grazie ad un annuncio personale che Gregory decide di fare per trovare una donna colta, interessante e non particolarmente attraente. Rose sembra rispecchiare in pieno questo ideale di donna ma lei soffre perché i due si riducono a parlare parlare e parlare senza arrivare mai a concretizzare il loro rapporto. Arrivano persino a sposarsi, sempre con un patto che stabilisce che il loro rapporto sia solo platonico per non rischiare di rovinare la loro relazione intellettuale. Rose accetta convinta che prima o poi lui cambierà ma quando si rende conto che non c’è speranza decide di lasciare Gregory nonostante lo ami perdutamente.

Solo quando capisce che Rose non tornerà sui suoi passi, Gregory si rende conto di amarla sin dal primo momento in cui l’ha vista…

La regia è della stessa Streisand. La prima parte della pellicola scivola via tra situazioni esilaranti e battute ironiche, tanto da far presagire l’inizio di un gran bel film, poi inspiegabilmente ma molto prevedibilmente la narrazione perde i pezzi fino a trasformare una piacevole commedia in un prodotto che gronda melassa ad ogni fotogramma, ad ogni primo piano della Streisand e ad ogni dialogo. I due attori fanno comunque la loro parte ma su tutti giganteggia la grandissima Lauren Bacall ancora bellissima e magnetica, nella parte della madre di Rose.

VOTO 6,5

0 Amore mio aiutami (1969)

Questa è la storia di Giovanni (Alberto Sordi) e Raffaella (Monica Vitti), una coppia felicemente sposata da 10 anni che improvvisamente subisce un momento di crisi. Il tutto comincia quando Raffaella confida a suo marito di essersi innamorata di un altro uomo, conosciuto in uno dei suoi mercoledì a teatro. Inizialmente Giovanni cerca di non perdere la testa e anzi tenta di aiutare la moglie ad uscire da questo momento di sbandamento, arrivando a sopportare anche le numerose ore in cui lei parla continuamente dell’amante. Ad un certo punto, stremato dalla situazione, arriva a picchiare brutalmente Raffaella tanto da mandarla in ospedale (così come era successo ad una coppia di cui avevano letto nella cronaca di un quotidiano all’inizio del film, giudicando il marito un violento senza cuore). Dopo questo fatto Raffaella sembra essere tornata quella di un tempo, innamorata e accondiscendente ma la tragedia è dietro l’angolo e deflagra durante una crociera in Spagna che i due decidono di regalarsi come suggello ad un periodo difficile. Sarà proprio lì che Giovanni perderà definitivamente la moglie…

Com’è amara questa commedia! Al centro un amore coniugale messo a dura prova da una sbandata improvvisa e inaspettata. La routine spazzata via da un imprevisto in forma di uomo piacente e disponibile, affascinante e colto, tutto il contrario dell’anonimo Giovanni, così prevedibile e accondiscendente nei confronti di una moglie di cui è talmente innamorato da soffrire per le lacrime che lei versa per un altro uomo. La sofferenza di Raffaella supera la gelosia e il dolore e il pover’uomo si convince che l’unico modo per risolvere la situazione è concedere alla moglie un ballo con l’uomo che ama, senza capire che questo sarà il preludio al tradimento completo e alla fine del matrimonio. La sua ultima speranza infatti è che una volta consumato il capriccio, Raffaella torni da lui rendendosi conto che si trattava solo di attrazione sessuale, ma quando capisce che invece si tratta di amore vero non gli resta che tornare mestamente a casa, con le istruzioni della moglie scritte su un foglietto nascosto nella giacca. Lei alla fine con le lacrime agli occhi, nuda nel letto che ha diviso con l’amante, gli chiede se la rivuole con lei e lui fa no con la testa, no no no, come un bambino a cui hanno dato un sonoro ceffone o a cui hanno rubato il giocattolo preferito. No che significa non ti credo più, no non ti voglio più aiutare a farmi star male, no lasciami in pace. Il film è la parabola di un amore che forse non c’era più già da tanto tempo, che si trascinava in gesti quotidiani fatti senza più poesia ma come un prezzo da pagare per il quieto vivere. E’ una commedia amarissima che vede come protagonisti due grandissimi attori che tengono su il film con maestria e un istrionismo da veri mattatori. Lei è una bellissima Vitti che manifesta le sue nevrosi somatizzando le sofferenze di cuore, lui è un Alberto Sordi nevrotico, tenero, innamorato e gelosissimo. I due fanno grande un film che soprattutto nella seconda parte vira un po’ troppo nel dramma. Bello comunque e meritevole di essere visto.

VOTO 7,5

sabato 10 marzo 2012

0 Abbandonati nello spazio (1969)

Tre astronauti rimangono bloccati nello spazio dopo cinque mesi trascorsi in un laboratorio spaziale. A causa di un’avaria al sistema non è possibile riportare la loro navicella (Ironman) all’interno dell’atmosfera terrestre. La loro vita è ormai ridotta al lumicino visto il poco ossigeno rimasto, sufficiente per soli due giorni….

Con una trama così risulta difficile per un appassionato di avventure spaziali perdersi un boccone così gustoso, decorato anche con un meritato premio Oscar per gli effetti speciali che al nostro sguardo anni 2000 appaiono come poca cosa, ma che all’epoca avranno fatto sicuramente scalpore. L’atmosfera spaziale, solitaria e silenziosa, è riprodotta davvero efficacemente, tanto da non farci dubitare neanche per un momento che la pellicola sia stata girata nel profondo nero al di là dell’atmosfera terrestre. Le pulsantiere poi sono fedeli allo stile fantascientifico dei tempi, prive di nesso logico e molto numerose per dare un’idea approssimativa della complessità delle navicelle spaziali, frutto di un’ingegneria statunitense senza rivali (a parte la Grande Madre Russia, presente anch’essa all’interno del film).

Ciò che colpisce però non è il dispiego di stratagemmi e attrezzature che rendano credibile un ambiente creato in uno studio cinematografico, ovvio visto che siamo gente del 2012, scafata e poco propensa a gridare al miracolo davanti al modellino mal fatto di un’astronauta che vaga nella galassia. Ciò che tiene veramente incollati alla sedia è la trama, lo sviluppo di una storia ad alta tensione di cui non si riesce fino all’ultimo ad intuire il finale. Sarà assurdo ma ho condiviso anche io con quei tre eroi la rarefazione dell’aria, ho sentito anche io il peso al torace e l’ansia spasmodica che ti chiude la gola e non ti fa respirare. La sensazione è stata questa fino all’ultimo secondo di film e questo signori si chiama capolavoro.

Quanti sono i film capaci di farti sentire all’interno di una tuta spaziale con un solo minuto di ossigeno prima della morte? Io dico nessuno e lo dico alla luce di un gran numero di film che fanno della tensione spasmodica il nucleo del loro essere. Negli anni 60 ( e ancor più negli anni 70) i registi sono stati capaci di offrire allo spettatore la capacità di viaggiare al di fuori del proprio corpo per vivere avventure in luoghi impossibili da raggiungere fisicamente o perché appartenenti ad un mondo di fantasia (vedi Star Wars) o perché lontanissimi da noi (vedi lo spazio come in questo caso). Si chiama magia e appartiene davvero ad un epoca che non c’è più, ormai acquistiamo biglietti per bearci gli occhi non per trovare emozioni pure. Peccato.

In questo film così bello e memorabile le scene più intense, oltre a quelle finali, sono quelle incentrate sull’ultimo saluto che i tre astronauti fanno alle proprie mogli, non sapendo in effetti se le rivedranno ancora, realisti data la situazione e consapevoli vista la missione a cui hanno voluto partecipare pur conoscendone i rischi. E’ un saluto straziante che delinea in modo spettacolare e sensibile le diverse personalità dei tre uomini, rendendoceli ancora più vicini se possibile.

Un capolavoro da riscoprire.

VOTO 9

venerdì 9 marzo 2012

0 Amore e chiacchiere (1957)

 

Commedia gustosissima che segue due binari differente ma in qualche modo legati strettamente. Da una parte seguiamo le vicende politiche di un piccolo paese di provincia dove non manca la figura del sindaco corruttibile che promette agli anziani del luogo di ricostruire l’ospizio ridotto a rudere dalle bombe ma che poi cambia idea per non danneggiare la vista spettacolare che si gode dalla villa di un industriale ricco, insensibile e corrotto. Dall’altra invece abbiamo la tenera storia d’amore tra il quindicenne Paolo, figlio del sindaco, e Maria la figlia dello spazzino. Un amore contrastato da entrambe le famiglie, situazione che porta i due ragazzi a fuggire a Roma per spaventare i genitori con la minaccia di uccidersi.

La pellicola, firmata da Blasetti e ispirata ad una commedia di Zavattini, è leggera ma piena di critica sociale (bonaria ma realistica) verso il marcio della politica italiana. Non mancano poi le disparità sociali sottolineate dalla povertà dello spazzino, giudicato indegno di entrare a far parte della onorata e borghese famiglia Bonelli. Sostanzialmente un cliché di un certo cinema che non esiste più ma che rispecchia il pensiero dominante dell’epoca: il ricco studio e arriva in alto, il povero rimane imprigionato nelle maglie della sua condizione sociale, confinato ai margini della società.

La recitazione di De Sica è come al solito spettacolare e ci si stupisce di vedere come ormai suo figlio Christian così simile a lui nel fisico, finisca per assomigliargli anche nelle espressioni e nei gesti oltre che nell’impostazione della voce (ovviamente ad un livello molto più basso visto il tenore dei film interpretati da De Sica junior).

Si fanno notare anche i due ragazzini, soprattutto la strepitosa Carla Gravina che ci regala una Maria molto moderna dominatrice del povero Paolo, restia ad esprimere i propri sentimenti ma allo stesso tempo perdutamente innamorata di quell’adorabile balbuziente. Com’è tipico di un certo stile dell’epoca i momenti romantici sono sottolineati da un tema musicale tutto miele che accompagna gli incontri clandestini dei due giovani innamorati.

VOTO 7  

giovedì 8 marzo 2012

0 A casa per le vacanze (1995)

Jodie Foster in cabina di regia sforna una commedia elegante e forse un po’ snob con molti tempi morti e dialoghi anni 90 come se piovesse. Al centro abbiamo una famiglia stravagante, come è di uso comune nell’America cinematografica, che si riunisce come ogni anno a casa degli anziani genitori per trascorrere insieme la Festa del Ringraziamento. Peccato che tra i vari consanguinei non corra buon sangue, tra vecchi rancori e invidie, tra genitori che manifestano da sempre delle preferenze e tra fratelli che si lancerebbero addosso coltelli e stoviglie. Il rito comunque si compie per l’ennesima volta, con il taglio del tacchino che prelude allo scoppio dell’ennesima lite: la sorella maggiore che disprezza il fratello gay, la sorella buona che cerca di mediare ma finisce per essere coinvolta nella rissa verbale, il cognato che nonostante il suo finto aplomb finisce per fare a cazzotti per difendere la moglie e infine i terribili bambini viziati e maleducati, già fotocopie degli odiosi genitori.

Certo il film ha un plot a prima vista molto succulento ma si perde in leziosità che denunciano la poca dimestichezza della Foster nel ruolo di regista e soprattutto nell’ambito della commedia, lontanissima dal suo mondo fatto di ruoli drammatici e controversi. Sembra più un tentativo abbozzato che un prodotto ben confezionato e con le idee chiare. I personaggi sono troppo stereotipati e poco realistici, il buonismo di fondo che sfocia nelle mielose sequenze finali riduce poi il tutto ad un polpettone indigesto. Una commedia amara e ironica ma senza la zampata finale.

VOTO 5,5

mercoledì 7 marzo 2012

0 In linea con l’assassino (2002)

La boria, le bugie, la finzione sono elementi dominanti nella personalità superficiale del giovane pubblicitario Stu Shepard (interpretato da un piagnucoloso Colin Farrell). Crede di avere in pugno New York con il solo aiuto della sua spregiudicatezza e di un telefonino con il quale organizza le sue giornate e i suoi successi ma non so che la sua vita sta per cambiare. Come tutti i giorni entra nella solita cabina del telefono (l’ultima rimasta nella Grande Mela), si sfila la fede nuziale e chiama un’aspirante attrice che solletica la sua fantasia di uomo. Da lì a poco il telefono inizia a squillare e Stu risponde, come gesto automatico dopo giornate trascorse al cellulare. Dall’altra parte del filo c’è il suo Destino, una voce profonda e beffarda che inizia a perseguitarlo, dimostrando di conoscere tutta la sua vita, comprese le bugie con cui ha costruito il suo personaggio. L’uomo misterioso guarda Stu dalla finestra di un palazzo di fronte alla cabina e questo pone fine alla possibilità che il giovane possa riattaccare e fuggire. Un fucile segue ogni sua mossa mettendo in chiaro che il gioco non può finire finché non sarà il killer a decidere di porre fine al macabro divertimento.

La regia usa lo split screen a piene mani e gioca con le inquadrature in modo da enfatizzare elementi della scena che apparentemente sembrano non rappresentare niente di speciale ma che in alcuni casi sottolineano il carattere del personaggio (vedi per esempio il cartello pubblicitario alle spalle di Stu che dice “chi ti credi di essere?” o l’anello nuziale disinvoltamente lasciato sul telefono a gettoni e rindossato al cospetto della moglie, come simbolo di un tardivo pentimento). Oltre questi stratagemmi di poco conto non c’è molto altro. Il film non ha un vero contenuto né una trama credibile. Sembra infatti esagerato pensare che un serial killer (o meglio Moralizzatore visto i fini educativi che guidano la sua mano) si prenda la briga di “purgare” un uomo che ha come unica colpa quella di salire la scala del successo con bugie da naso di legno o che pensa di tradire la moglie senza per altro arrivare a concretizzare questa banalissima fantasia. Un uomo con gli attributi che nel giro di 70 minuti (narrati in tempo reale) si trasforma in un’ameba lacrimosa e sudata. In realtà il regista non riesce a comunicare tensione allo spettatore che rimane lì a chiedersi se succederà mai qualcosa o se la storia procederà fino alla fine su un binario morto. Persino il finale non riesce a fare il botto perché tutto sommato risulta già visto tante volte in altri film thriller magari qualitativamente superiori. Non è un film che si fa ricordare.

VOTO 5 

sabato 3 marzo 2012

0 L’Agnese va a morire (1976)

Agnese è una lavandaia che vede la sua vita cambiare radicalmente quando il marito viene portato via dai Nazisti perché accusato di essere un partigiano. La donna, che fino a quel momento aveva vissuto un’esistenza monotona e tranquilla, decide di entrare essa stessa nella Resistenza, un po’ per onorare la memoria del marito, un po’ per l’odio che inizia a provare per i Tedeschi. Lei, che non sa neanche leggere perché non l’ha mai voluto imparare, diventa una compagna fidata e coraggiosa, disposta a correre il pericolo di morire pur di aiutare i tanti giovani partigiani che lottano una guerra impari, guidati da ideali altissimi e dal sogno di un’Italia finalmente libera dal giogo nazista e fascista. Agnese uccide un tedesco e da quel momento inizia un viaggio che l’allontana da una casa che non rappresenta più niente e l’avvicina al suo destino di donna eroica. Non ha fissa dimora, non ha più radici, ma non le importa più ora che il suo Palita è morto. E’ il suo ricordo che la tiene viva e forte fino a quando lo sguardo di un ufficiale tedesco si posa su di lei, riconoscendola come colei che ha ammazzato un soldato tedesco. Un colpo di pistola chiude il film.

La pellicola è cruda, dura e avvincente. L’atmosfera brumosa delle valli di Comacchio riesce a far penetrare il gelo dell’inverno anche nelle ossa di uno spettatore degli anni 2000. Il regista Montaldo crea un piccolo gioiello anche per merito di una straordinaria Ingrid Thulin, capace di rivestire in modo naturalissimo i panni di una donna di mezza età del secolo scorso, una donna che ha un carattere forte e deciso, che prova un odio puro e legittimo e che muore con la consapevolezza di aver fatto tutto ciò che era in suo potere per veder compiuta un’impresa a prima vista impossibile ma che poco tempo dopo darà come risultato un’Italia libera e pronta a iniziare la sua lenta ripresa.

Agnese nonostante il suo coraggio, è comunque una donna avulsa dalle logiche a volte spietate che guidano il Comandante e cerca di trovare soluzioni alternative che possano salvare tante vite. Questo la rende credibile e ce la fa sentire ancora più umana, lei che con la sua bicicletta è capace di farsi 4 ore di tragitto per portare i viveri ai suoi giovani compagni e che apre la sua casa a chi ha bisogno di aiuto così come faceva il suo amato Palita. Non importa se è un rischio, ciò che conta è aiutare, aiutare finché si può.

Un film che segna nel profondo, che spinge a riflessioni su come sia stata dura per i nostri nonni vivere in quei tempi di terrore, sospetto e violenza, senza sapere se sarebbe mai finita, senza sapere se i propri figli avrebbero avuto una vita migliore o semplicemente un futuro.

VOTO 9

giovedì 1 marzo 2012

0 L’affittacamere (1976)

Due sorelle, una brutta e grassa l’altra bella e procace (Gloria Guida), ricevono in eredità da una vecchia zia un casolare alle porte di Bologna e decidono di ricavarne una pensione. Nel giro di poco tempo, soprattutto grazie all’avvenenza della sorella bella, i clienti aumentano e pazienza se in cambio delle 50000 lire al giorno pretendono oltre al vitto e alloggio anche qualche favore sessuale….

Si tratta di un film veramente da poco, una sorta di Locandiera in chiave erotica con al centro tutta una serie di equivoci di tipo sessuale: moglie fedifraga che tradisce il marito censore, l’onorevole feticista, il medico che tradisce la moglie e via dicendo. Le battute poi sono veramente da circolo polare artico non riuscendo mai a strappare una risata ma anzi diventando via via più indigeste.

Il film riveste in pieno le atmosfere del cinema italiano anni ‘70 che ha portato al successo tante belle donne (ora un po’ acciaccate dal passare degli anni) tra cui sicuramente Gloria Guida, una Barbie in tutto e per tutto. Le scene di nudo anche integrale (che sono poi il sale di questo genere di pellicola e la carota per l’asino in forma di uomo guardone) non mancano, mentre il sesso è solo accennato ma mai concretizzato (vedi il bel fantino Pambieri che non riesce mai per un motivo o per l’altro a finalizzare la copula con l’amante).

Insomma un prodotto non annoverabile neanche tra i cult di quegli anni, mal fatto, mal recitato e con una trama terribile.

VOTO 4

 

La finestra sul cortile Copyright © 2011 - |- Template created by O Pregador - |- Powered by Blogger Templates