Tre astronauti rimangono bloccati nello spazio dopo cinque mesi trascorsi in un laboratorio spaziale. A causa di un’avaria al sistema non è possibile riportare la loro navicella (Ironman) all’interno dell’atmosfera terrestre. La loro vita è ormai ridotta al lumicino visto il poco ossigeno rimasto, sufficiente per soli due giorni….
Con una trama così risulta difficile per un appassionato di avventure spaziali perdersi un boccone così gustoso, decorato anche con un meritato premio Oscar per gli effetti speciali che al nostro sguardo anni 2000 appaiono come poca cosa, ma che all’epoca avranno fatto sicuramente scalpore. L’atmosfera spaziale, solitaria e silenziosa, è riprodotta davvero efficacemente, tanto da non farci dubitare neanche per un momento che la pellicola sia stata girata nel profondo nero al di là dell’atmosfera terrestre. Le pulsantiere poi sono fedeli allo stile fantascientifico dei tempi, prive di nesso logico e molto numerose per dare un’idea approssimativa della complessità delle navicelle spaziali, frutto di un’ingegneria statunitense senza rivali (a parte la Grande Madre Russia, presente anch’essa all’interno del film).
Ciò che colpisce però non è il dispiego di stratagemmi e attrezzature che rendano credibile un ambiente creato in uno studio cinematografico, ovvio visto che siamo gente del 2012, scafata e poco propensa a gridare al miracolo davanti al modellino mal fatto di un’astronauta che vaga nella galassia. Ciò che tiene veramente incollati alla sedia è la trama, lo sviluppo di una storia ad alta tensione di cui non si riesce fino all’ultimo ad intuire il finale. Sarà assurdo ma ho condiviso anche io con quei tre eroi la rarefazione dell’aria, ho sentito anche io il peso al torace e l’ansia spasmodica che ti chiude la gola e non ti fa respirare. La sensazione è stata questa fino all’ultimo secondo di film e questo signori si chiama capolavoro.
Quanti sono i film capaci di farti sentire all’interno di una tuta spaziale con un solo minuto di ossigeno prima della morte? Io dico nessuno e lo dico alla luce di un gran numero di film che fanno della tensione spasmodica il nucleo del loro essere. Negli anni 60 ( e ancor più negli anni 70) i registi sono stati capaci di offrire allo spettatore la capacità di viaggiare al di fuori del proprio corpo per vivere avventure in luoghi impossibili da raggiungere fisicamente o perché appartenenti ad un mondo di fantasia (vedi Star Wars) o perché lontanissimi da noi (vedi lo spazio come in questo caso). Si chiama magia e appartiene davvero ad un epoca che non c’è più, ormai acquistiamo biglietti per bearci gli occhi non per trovare emozioni pure. Peccato.
In questo film così bello e memorabile le scene più intense, oltre a quelle finali, sono quelle incentrate sull’ultimo saluto che i tre astronauti fanno alle proprie mogli, non sapendo in effetti se le rivedranno ancora, realisti data la situazione e consapevoli vista la missione a cui hanno voluto partecipare pur conoscendone i rischi. E’ un saluto straziante che delinea in modo spettacolare e sensibile le diverse personalità dei tre uomini, rendendoceli ancora più vicini se possibile.
Un capolavoro da riscoprire.
VOTO 9
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