Trama: George (Kevin Kline) scopre di avere un cancro all’ultimo stadio e decide di trascorrere i mesi che gli rimangono insieme a suo figlio Sam (Hayden Christensen), un adolescente scontroso con cui da tempo non ha più un rapporto. Durante la difficile convivenza i due iniziano ad avvicinarsi e a volersi bene complice anche la costruzione di una casa, da sempre il sogno nel cassetto di George…
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Certo gli americani ci hanno abituato da almeno 20 anni al canovaccio che risponde all’equazione malato terminale=ricongiungimento finale e tanti buoni sentimenti e devo dire che i miei occhi lucidi testimoniano ampiamente il fatto che l’idea di partenza rimane sempre valida soprattutto se si ha un cuore di pastafrolla come il mio. Inoltre la pellicola ha ricevuto tanti riconoscimenti compreso un Golden Globe e ciò testimonia l’assoluta qualità del prodotto ma soprattutto dei suoi splendidi interpreti in modo particolare Kevin Kline e Christensen, quest’ultimo nel suo primo ruolo importante. Mettiamoci pure il premio Oscar Kristin Scott Thomas e il gioco è fatto.
Il film non è un dialogo a due come ci si aspetta da questo genere di impronta fortemente drammatica, spesso incentrato su storie d’amore sofferte e tragiche. Qui al contrario abbiamo il rapporto difficile tra un padre e un figlio ma anche tutta una serie di personaggi e storie di contorno che rendono Life as a House un vero capolavoro. Non mancano le situazioni ironiche e gli scontri generazionali, la droga, il sesso, la rabbia ma anche l’amicizia, l’amore ritrovato o appena sbocciato. C’è anche tanta retorica americana ma questo è un difetto che si perdona proprio perché nasce dal dna degli sceneggiatori e non da una scelta furbetta. Per un americano non è proprio possibile rinunciare ad esporre in prima vista i propri valori come per esempio la collaborazione tra vicini, gli insegnamenti dei padri e una certa morale che per noi europei è un concetto sconosciuto. Noi siamo più portati a raccontare l’ineluttabilità delle scelte e della vita, mentre gli americani tendono sempre a rimettere a posto le situazioni secondo il loro concetto preferito ossia il “va tutto bene”.
Penso che forse l’unico vero neo del film sia proprio il finale che delude chi si aspetta che la casa costruita con tanta determinazione passi a Sam. In realtà viene generosamente elargita alla vittima di un antico incidente stradale provocato dall’odiato padre di George come in un’espiazione finale per un peccato altrui. Ma in fondo l’ultimo sogno di George era la felicità del figlio e questo è un desiderio che in effetti si avvera molto prima della fine.
VOTO 8
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