Si tratta di un film tratto da una storia vera, la storia di Aron Ralston, un appassionato di alpinismo e arrampicate, che nel 2003 rimase intrappolato da una roccia nello Utah per 127 ore.
Il volto del protagonista è quello del convincente James Franco, un attore che sembra sempre sul punto di emergere ma che per i più rimane ancora uno sconosciuto nonostante la sua carta d’identità dica 1978. Un vero peccato perché in ogni suo film (tranne a mio parere nella trilogia di Spiderman) è sempre riuscito a entrare totalmente nel personaggio, così come per l’appunto in questo bellissimo e angosciante film che gli ha valso addirittura una nomination agli Oscar.
Lui è il protagonista indiscusso. Solo nella parte iniziale (particolarmente riuscita e spettacolare sia per la fotografia che per le acrobazie sulla mountain bike di Aron) ha la compagnia di due ragazzuole in cerca di emozioni naturalistiche. Poi rimane solo. Solo dentro uno stretto canyon. Impressionante come il regista (Danny Boyle) sia riuscito perfettamente a rendere il passaggio brusco dalla libertà e l’euforia di un giovane temerario alla sua prigionia. Il tutto nel giro di una frazione di secondo. Una distrazione nella sicurezza di gesti e acrobazie ripetute mille volte e tac sei fottuto. Un comune essere umano si sarebbe metaforicamente sparato in fronte, ma Aron no. Lui prima si dispera e poi inizia a pensare razionalmente a come sopravvivere mettendo da parte tutto ciò che gli può servire, razionando cibo e acqua in attesa di soccorsi che non arriveranno mai. Si mostra però molto umano e poco supereroe quando cerca di scalfire con un ridicolo coltellino la roccia che gli blocca il braccio e quando la sua mente inizia a volare via, perdendosi tra ricordi reali e miraggi fittizi, tra ciò che non vorrebbe aver fatto e ciò che rimpiange di aver fatto. Su tutto l’amore per la sua famiglia, sempre pronta ad incoraggiare la sua vena temeraria e esploratrice, e quello per la sua ragazza. Ma è l’immagine di un bambino che gli dà la spinta per compiere il gesto più difficile e cruento, l’unico che lo possa riportare ai suoi affetti e alla luce.
Il film è a dir poco angosciante e non adatto a chi è facilmente impressionabile. Ha un che di claustrofobico che ti entra nelle vene fino ad ostruirle. La cosa sorprendente è la capacità di Boyle e Franco di rendere appassionante un monologo e non pesante un’inquadratura quasi fissa o comunque giocata su un metro quadro di spazio. E’ un film che scivola via veloce e che commuove soprattutto nel finale dove è impossibile non immedesimarsi in quest’uomo disperato, solo e sofferente nonostante ormai sia fuori dal tunnel. La sua disperazione esce fuori alla fine, prima è come narcotizzato, sicuro davanti ad una telecamera che riprende le sue ore di prigionia e il suo passaggio dalla speranza alla rassegnazione e di nuovo alla speranza, come se davanti al mondo che guarderà quelle immagini lui debba essere per forza ciò che i genitori si aspettano e non un comune essere umano che sclera e dà fuori di matto.
L’unica pecca del film è proprio la parte clou, quella più cruenta. Mi sono chiesta se fosse possibile farcela con uno strumento così ridicolo. Evidentemente sì visto che si tratta di una storia vera. Pazzesco ma vero.
VOTO 8
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