martedì 8 febbraio 2011

0 Dottorato di ricerca. Test di ammissione

Oggi è un giorno così strano che potrei definirlo senza tanti giri di parole come un giorno di merda Annoiato. Tutto è iniziato quando a fine dicembre è capitato tra i miei piedi incasinati un bando di concorso per l’ammissione ad un Dottorato di Ricerca in Storia. Era uno di quei classici periodi in cui vuoi solo appiccare fuoco ai tomi universitari e rifugiarti in un eremo con un pc, un paio di auricolari e con le palle libere da costrizioni accademiche o obblighi morali. Poi ecco che salta fuori dal cilindro quella carta che aspettavi da una vita, quella che ti mancava per piazzare una fottutissima scala reale, quella che mette un punto e a capo nelle tue aspirazioni personali.

Che dire…la mia faccia davanti a quel pdf era più o meno questa Basito. Ho macinato pensieri e li ho di volta in volta resettati per poi riprenderli in mano. Alla fine per un senso di dovere verso tutti tranne che verso la sottoscritta nella persona di me me medesima ho deciso di partecipare e fanculo se il tempo a disposizione per ripassare 500 anni di storia era un mesetto scarso. Naturalmente nel bando non c’era nessun tipo di indicazione in merito al modo di prepararsi, che so un elenco di testi, un minimo di accenno alle tracce degli anni precedenti. Insomma la classica scatola chiusa dove o prendi tutto o molli tutto, senza vie di mezzo.

Ho fatto il possibile e l’impossibile pur di arrivare al fatidico giorno con un’infarinatura passabile. Due settimane prima hanno comunicato che il colloquio sarebbe stato la mattina dopo della scritto. E’ stato quello il momento in cui ho iniziato ad alzare bandiera bianca. Io sono una persona che ha bisogno di almeno una settimana per avviare una connessione decente tra il materiale immagazzinato in un tomo di 1000 pagine e il mio personale centro del linguaggio. Detto in parole povere: ho bisogno di ripetere e ripetere e ripetere. Lo scritto è un altro paio di maniche, lo scritto ti permette di organizzare in solitudine un discorso e dare il meglio di te in un italiano elegante forbito. Va beh fatto sta che ho comunque deciso di provare lo scritto anche solo per capire i meccanismi di un concorso pubblico. E allora eccomi lì seduta al secondo banco di un’aula sconosciuta, pronta a consegnare tutto e andar via nel momento esatto in cui la lettura della traccia avrebbe smontato tutto il mio fragile castello di carte.

Stranamente è uscita una traccia che mi ha spalancato un mondo o almeno un mondo che poteva riempire più di mezza paginetta. A quel punto ho fatto qualcosa che non tutti avrebbero fatto, o almeno non l’avrebbe fatto chi come me sapeva di non voler poi affrontare l’orale: insomma ho deciso di dare comunque il meglio di me e ho scritto tutto quello che mi veniva in mente mentre i banchi intorno a me svanivano sostituiti da una nebbia fumosa. Eravamo in 20, c’era gente che salutava i professori che erano in commissione, c’erano facce da spillo con gli occhiali e il contratto in un ente pubblico che avevano già tutte le dritte sulle modalità di svolgimento della prova orale. C’erano scogli insormontabili ed è stato più o meno là che ho mollato la presa e che le mie 4 pagine firmate e timbrate sono diventate un mero esercizio di stile e non più un 50% di un concorso pubblico.

Ho un difetto: se mi sento impreparata non riesco a lottare e gettarmi nella mischia come in una rissa nel peggior bar di Caracas. Non so sgomitare, non so prendere per il naso i docenti, non so gonfiare discorsi vuoti per farli apparire densi di contenuti. Ho comunque consegnato e mi sono portata dentro un’ansia inutile per 24 ore, cioè finché non sono andata a vedere la graduatoria affissa alla porta di uno dei docenti della commissione. Sono passata. Ero una dei 12 sopravvissuti alla temibile prova che vede ogni anno più trombati che ammessi. Ero appena nella media che permetteva l’accesso al colloquio. Ho rinunciato.

Sapete, a volte si sente parlare di treni che vanno presi al momento perché poi non ritornano ma nessuno parla di quei treni che vorresti prendere ma non puoi perché ti hanno messo un gradino troppo alto per salirci. Stamattina ho pensato a cosa significava rinunciare e a cosa significava gettarsi allo sbaraglio. Sulla bilancia c’era da una parte la soddisfazione personale e dall’altra la consapevolezza che avrei fatto la classica figura marrone perché se 11 hanno un progetto di ricerca e tu hai solo la tua presenza c’è poco da ragionarci su. E’ stata una scelta massacrante soprattutto quando hai queste pressioni che si manifestano con le grandi speranze di chi ti ha generato che non riesce minimamente a capire il tuo disagio e il tuo malessere. Che vede un portone laddove c’è un uscio per i 7 nani con la raccomandazione in tasca.

Cosa dire? Spero vivamente che la vita possa ricompensarmi di qualcosa che ho sognato per un bel po’ di tempo ma che non si è totalmente realizzato. Sul web comunque è pieno di testimonianze di dottorandi che si sono amaramente pentiti di aver iniziato una strada fatta solo di energie sprecate, stipendi non pervenuti e docenti che mettono il proprio nome sui tuoi lavori.

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