martedì 31 gennaio 2012

0 Ragazze da marito (1952)

Film con protagonisti i fratelli De Filippo: Eduardo (anche regista) immenso sia in chiave drammatica sia nei toni più leggeri degli scambi di battute col fratello minore  Peppino una macchietta che dona quel po’ di comicità ad una pellicola solo apparentemente leggera e Titina, grande attrice e credibilissima nella parte della madre che vuole sistemare le tre figlie con uomini benestanti, in modo da evitare che ripetano la sua vita di sacrifici e zero lussi.

La trama è molto semplice: in quel di Roma si svolgono le vicende di una famiglia napoletana che sbarca il lunario grazie ad un padre che svolge il mestiere di integerrimo impiegato ministeriale, ligio al dovere (tanto da porre il timbro esattamente nel centro del bollino prestampato), costretto a rinunciare al lusso di una granita al caffè con panna per risparmiare il centesimo e continuamente vessato da una moglie che vorrebbe una vita diversa. Il pover’uomo decide di investire i soldi delle tre figlie adolescenti in un affare che si rivela un imbroglio. A quel punto, preda della disperazione, cede all’illegalità e inizia ad approvare pratiche che in realtà erano già state respinte, in modo da ricevere in cambio i favori dei richiedenti. La vita della famiglia diventa più facile ma i problemi sono alle porte: una delle ragazze rimane incinta di un uomo sposato, un’altra figlia si sposa con un facoltoso uomo di Milano che a conoscenza dei misfatti del suocero obbliga la moglie a non frequentare più la famiglia. Il finale ovviamente vede Oreste licenziato ma con la gioia di vedere l’ultima figlia sposata per amore con un bravo e umile ragazzo.

Il film è poco conosciuto e molto bello. Godibile e amaro. Moderno e antico allo stesso tempo. Un gioiellino da riscoprire e apprezzare, anche solo per ammirare quel mostro sacro a nome Eduardo de Filippo.

VOTO 7  

sabato 28 gennaio 2012

0 127 ore (2010)

Si tratta di un film tratto da una storia vera, la storia di Aron Ralston, un appassionato di alpinismo e arrampicate, che nel 2003 rimase intrappolato da una roccia nello Utah per 127 ore.

Il volto del protagonista è quello del convincente James Franco, un attore che sembra sempre sul punto di emergere ma che per i più rimane ancora uno sconosciuto nonostante la sua carta d’identità dica 1978. Un vero peccato perché in ogni suo film (tranne a mio parere nella trilogia di Spiderman) è sempre riuscito a entrare totalmente nel personaggio, così come per l’appunto in questo bellissimo e angosciante film che gli ha valso addirittura una nomination agli Oscar.

Lui è il protagonista indiscusso. Solo nella parte iniziale (particolarmente riuscita e spettacolare sia per la fotografia che per le acrobazie sulla mountain bike di Aron) ha la compagnia di due ragazzuole in cerca di emozioni naturalistiche. Poi rimane solo. Solo dentro uno stretto canyon. Impressionante come il regista (Danny Boyle) sia riuscito perfettamente a rendere il passaggio brusco dalla libertà e l’euforia di un giovane temerario alla sua prigionia. Il tutto nel giro di una frazione di secondo. Una distrazione nella sicurezza di gesti e acrobazie ripetute mille volte e tac sei fottuto. Un comune essere umano si sarebbe metaforicamente sparato in fronte, ma Aron no. Lui prima si dispera e poi inizia a pensare razionalmente a come sopravvivere mettendo da parte tutto ciò che gli può servire, razionando cibo e acqua in attesa di soccorsi che non arriveranno mai. Si mostra però molto umano e poco supereroe quando cerca di scalfire con un ridicolo coltellino la roccia che gli blocca il braccio e quando la sua mente inizia a volare via, perdendosi tra ricordi reali e miraggi fittizi, tra ciò che non vorrebbe aver fatto e ciò che rimpiange di aver fatto. Su tutto l’amore per la sua famiglia, sempre pronta ad incoraggiare la sua vena temeraria e esploratrice, e quello per la sua ragazza. Ma è l’immagine di un bambino che gli dà la spinta per compiere il gesto più difficile e cruento, l’unico che lo possa riportare ai suoi affetti e alla luce.

Il film è a dir poco angosciante e non adatto a chi è facilmente impressionabile. Ha un che di claustrofobico che ti entra nelle vene fino ad ostruirle. La cosa sorprendente è la capacità di Boyle e Franco di rendere appassionante un monologo e non pesante un’inquadratura quasi fissa o comunque giocata su un metro quadro di spazio. E’ un film che scivola via veloce e che commuove soprattutto nel finale dove è impossibile non immedesimarsi in quest’uomo disperato, solo e sofferente nonostante ormai sia fuori dal tunnel. La sua disperazione esce fuori alla fine, prima è come narcotizzato, sicuro davanti ad una telecamera che riprende le sue ore di prigionia e il suo passaggio dalla speranza alla rassegnazione e di nuovo alla speranza, come se davanti al mondo che guarderà quelle immagini lui debba essere per forza ciò che i genitori si aspettano e non un comune essere umano che sclera e dà fuori di matto.

L’unica pecca del film è proprio la parte clou, quella più cruenta. Mi sono chiesta se fosse possibile farcela con uno strumento così ridicolo. Evidentemente sì visto che si tratta di una storia vera. Pazzesco ma vero.

VOTO 8     

mercoledì 25 gennaio 2012

0 Punto di impatto (2011)

Ci sono film che partono in quarta e poi dopo un quarto d’ora perdono velocità fino a fermarsi del tutto al minuto 23.

Ci sono film provvisti di una trama promettente e succosa, adatta a far trascorrere un’ora e mezzo di suspence e fiato corto, per poi perdere un filo logico dopo il solito minuto 23.

Questo film rispecchia entrambe le situazioni ed è un peccato perché il mio primo pensiero a vedere quest’uomo appeso ad un davanzale di un palazzo è stato “questo film è una bomba”. Il pensiero è diventato certezza quando si è scoperto che il suo non era un tentativo di suicidio ma l’unico modo per salvare la vita di un’altra persona. Interessante anche l’inserto dei flash back che portano lentamente lo spettatore a ricostruire la storia che porta Gavin a togliersi la vita. Tutto insomma concorre per creare un’immediata empatia tra spettatore e protagonista, ma improvvisamente questo gran castello di promesse precipita giù con fragore lasciando lo spettatore deluso e decisamente infastidito.

Qual è il problema? Innanzitutto la storia parallela del poliziotto sterile. Quest’uomo scopre di non aver mai potuto generare figli ma nonostante ciò ha una prole. Perché? Perché la moglie pur di non perdere il marito si è fatta inseminare dal fratello di lui, in modo che i figli fossero il più possibile simili al padre/zio. Orripilante ma anche privo di logica e assolutamente avulso dal contesto.

In secondo luogo il protagonista (Charlie Hunnam) non riesce in nessun modo ad essere credibile come innamorato disperato e disposto ad uccidersi pur di salvare la donna che alla fine si è scopato due volte e con cui ha diviso una birra. Non c’è un motivo vero e credibile che possa spingere un uomo a togliersi la vita per salvare una quasi sconosciuta. Inoltre perché non chiedere l’aiuto della polizia ma accettare subito la sfida di un pazzo fanatico religioso? Liv Tyler poi è come al solito imbarazzante, insulsa, assente. Il suo personaggio ha una storia controversa, prima strafatta e poi suora laica, succube di un marito anche lui prima strafatto e puttaniere e poi soldato di Cristo. La storia si evolve in modo sconclusionato fino ad un finale che lascia l’amaro in bocca.

Un peccato ripeto, un film che poteva davvero lasciare il segno e che invece si fa facilmente dimenticare. Consigliato solo a chi non ha di meglio da vedere.

VOTO 5,5

martedì 24 gennaio 2012

1 Il malato immaginario (1979)

Ho sempre amato Alberto Sordi, per me simbolo dell’Urbe insieme a Carlo Verdone, esempi di come la recitazione possa essere qualcosa di assolutamente naturale, come bere mangiare e dormire. Sordi riesce a conquistare lo spettatore con battute fulminanti e allo stesso tempo pari a pietre miliari, citazioni da tenere a mente o appuntare da qualche parte. Insomma un genio. L’unico a saper interpretare l’italianità senza peli sulla lingua, senza esagerazioni, senza caricature.

Anche in questo caso, in un film che a parer mio non brilla nel panorama cinematografico, Sordi riesce a tenere in piedi la baracca con lunghi monologhi che fanno avvicinare la pellicola ad una vera e propria pièce teatrale. Il film infatti non ha ritmo, non ha neanche una vera e propria sequenza narrativa. La stanza da letto di Argante è il luogo dove si svolge l’azione e lì compaiono i vari personaggi che riempiono di medicine e nulla la vita di questo malato immaginario. Un uomo che usa l’inesistente malattia per sfuggire ad un mondo che teme, proprio lui che un tempo era innamorato della gente e della vita al di fuori di quelle quattro mura. Un uomo che sente il peso di una ricchezza acquisita e non voluta, circondato da una moglie che lo tradisce col notaio e da medici ignoranti e avidi, sempre pronti a rifilargli un clistere quotidiano, pur di potergli sventolare davanti al viso ingiallito una salata parcella. Solo i servitori lo amano e lo rispettano, ma anche l’umanità che lavora la sua terra, pronta ad entrare nel suo palazzo con pecore e miseria per chiedergli a gran voce un ritorno alla vita.

E’ un film che racconta una storia di solitudine e di depressione, ma anche di voglia di ricominciare nonostante tutto. Ed è infatti questo il finale: un Argante vestito di tutto punto che con al braccio un nuovo amore apre il portone del suo palazzo e gode di nuovo della ritrovata libertà.

Il significato del film rappresenta il meglio del film stesso che come ho già anticipato non è granché né nel reparto regia né nel settore recitazione (a parte ovviamente il grande Albertone). Troviamo un giovane Christian De Sica che fa la macchietta com’è sua abitudine da 30 anni a questa parte, poi una altrettanto giovane Giuliana De Sio promettente ma decisamente alle prime armi e la serva fedele interpretata dalla procace Laura Antonelli (gran seno ma poca dimestichezza con la recitazione vera).

Il film è poi ricco di volgarità con poco succo, condensate nelle numerose scorregge o nella scena dell’ultimo fatalissimo clistere imposto al nostro Argante.

VOTO 6 

lunedì 23 gennaio 2012

0 Piedone a Hong Kong (1975)

Ma quanti film ha fatto Bud Spencer?? Difficile stabilirlo con precisione, sicuramente una miriade, in particolar modo tra gli anni 70 e i primi anni 80. Non per niente è diventato un’icona sia qui da noi che nel resto del mondo. Devo ammettere la mia ignoranza sulla sua filmografia, a parte i classici cult movie che l’hanno visto protagonista insieme a Terence Hill. Quelle pellicole hanno accompagnato la mia infanzia nei cinema degli oratori, così come sarà accaduto a molti miei coetanei.

Questo film non può essere etichettato come una semplice commedia. In primis perché le gag non sono il suo fulcro e poi perché la trama lo riconduce maggiormente verso il poliziesco anni ‘70. Il grande e grosso Bud riveste i panni del commissario Rizzo, una vera e propria istituzione a Napoli, città descritta da Steno come nucleo della malavita italiana tra piccoli furfanti, vecchiette che vendono sigarette sottobanco, e trafficanti di droga. Tutti comunque rispettano Rizzo e la vita procede tranquilla tra venditori di orologi taroccati e vita di borgata. Rizzo è però coinvolto in un’indagine su un malavitoso, colpevole di incentivare il traffico di droga tra gli Usa e l’Italia. Con la narco di Napoli collabora anche l’Fbi che è riuscita a scoprire un legame tra i trafficanti e un misterioso poliziotto, strumento fondamentale per il passaggio indisturbato della droga. Rizzo viene a conoscenza di un misterioso capoclan nell’estremo oriente e decide, senza autorizzazione, di recarsi prima a Bangkok e poi a Hong Kong per saperne di più…

Ovviamente il film è ricco di azione e scazzottate così come è tipico nella tradizione delle pellicole con protagonista Bud Spencer. Il tutto è godibile e leggero, sempre influenzato da un certo modo di fare cinema che vorrebbe ricordare i film americani, dalla gestualità, ai dialoghi un po’ pacchiani, dall’italoamericano tutto spaghetti e mandolino, ai poliziotti dell’Fbi. Ho molti gradito la scelta di far recitare Bud Spencer con la sua voce originale, gradevolissima e con un leggero accento napoletano che calza a pennello con la location del film.

Io lo consiglio agli amanti del genere, per tutti gli altri potrebbe essere un po’ pesante.

VOTO 6,5

venerdì 20 gennaio 2012

0 Brivido biondo (2004)

Ho trovato questo film molto deludente nonostante la presenza di un cast di buon livello (Morgan Freeman, Charlie Sheen e il mio adorato Owen Wilson). Vorrebbe essere una commedia ma in realtà non fa ridere. Vorrebbe essere una sorta di commedia nera ma in realtà non ha il colpo di scena finale…o meglio, ce l’ha ma non è granché. Mi ha ricordato, in brutto ovviamente, Ti amerò fino ad ammazzarti. Quello sì che era un prodotto con i fiocchi, denso di amara ironia, gag e colpi di scena rocamboleschi.

La trama è scialba: siamo alle Hawaii e Jack è un furfantello che perde la testa per la bionda di turno, amante del riccone del luogo. Lei lo seduce con pochi gesti e lui, totalmente perso, decide di accettare la proposta di lei di svuotare le tasche all’amante. E così con una lentezza esasperante e dialoghi non proprio di alta scuola, scivoliamo con tutto il cast verso il telefonatissimo finale, dove chi voleva fregare rimane fregato e quelli che dovevano essere i polli della situazione scappano col bottino e una bella donna sul sedile del passeggero.

Il titolo italiano è orrendo. Ma c’è novità in questo? Vorrei conoscere il traduttore dell’80% dei film statunitensi che arriva nelle nostre sale. Il titolo originale è The Big Bounce (una cosa come Il grande raggiro) che evidentemente è molto più attinente al contenuto del film.

Insomma un film brutto. Non lo consiglio neppure ai fan di Wilson (l’unico che sembra salvare la baracca).

VOTO 4

sabato 7 gennaio 2012

0 E venne il giorno (2008)

Dal regista de Il sesto senso una pellicola che si pone in una via di mezzo tra il genere catastrofico e drammatico. La storia prende le mosse in una mattina di sole a Central Park…improvvisamente tutti si bloccano e dopo pochi secondi si suicidano in massa, spinti da una forza misteriosa e invisibile. In un primo momento si pensa ad un attacco terroristico di matrice batteriologica ma col passare dei giorni prende forza una teoria più ambientalistica che vede al centro una sorta di vendetta contro l’uomo messa in atto dalle piante. Tra gli atroci e fantasiosi modi di togliersi la vita, trova spazio la storia di tre personaggi: Elliot (un inespressivo Mark Wahlberg, doppiato in modo atroce da Pino Insegno) professore di scienze, sua moglie Alma e la piccola Jess rimasta precocemente orfana di entrambi i genitori. Il piccolo trio cerca di sfuggire al destino che è spettato in sorte ad un numero imprecisato di americani e nella loro fuga si scoprono famiglia, facendo traboccare amore e zucchero colloso su tutti gli spettatori e portando questi ultimi alla conclusione che la tossina emanata dalle piante non colpisce chi si ama ma solo coloro che provocano disordini e violenza.

Il film sarebbe perfetto se non fosse per questa vena sentimentale che annacqua in modo esagerato i 90 minuti di girato. Wahlberg che di solito ricopre il ruolo del superuomo stavolta veste i panni del professore insicuro, impacciato e assolutamente antieroe. Una figura pressoché inutile così come sua moglie Alma, una stralunata Deschanel, che raggiunge un livello recitativo veramente modesto. Ecco il cast non è adeguato e la storia non è ben delineata, lasciando lo spettatore un po’ troppo a bocca asciutta, tenuto a bada solo da qualche scena splatter e da quell’atmosfera di ineluttabilità che ha sempre il suo fascino.

Un film troppo breve, poco sviluppato e un po’ buttato via. Peccato perché lo spunto di partenza è buono anche se un po’ troppo ricalcato su Cell di Stephen King. Si lascia comunque vedere regalando un’ora e mezzo di divertimento e un filo d’ansia.

VOTO 6,5   

venerdì 6 gennaio 2012

0 Le amiche (1955)

La regia del film è affidata al grande Michelangelo Antonioni ma nonostante ciò e sebbene premiato con un Leone d’argento, non riesce a smuovere più di tanto i sentimenti dello spettatore. La storia è tratta dal romanzo di Pavese Tre donne sole e si svolge in una fredda e brumosa Torino, dove si intrecciano le vicende di un gruppo di (falsi) amici appartenenti alla ricca borghesia piemontese. Le donne al centro della trama sono Clelia di umili origini ma affermata direttrice di una casa di moda, Nene artista promettente e tradita dal marito Lorenzo (uno scalcagnato pittore senza futuro) con l’amica Rosetta ingenua e fragile ragazza che finirà per uccidersi dopo essere stata rifiutata dall’uomo, la bella e cinica Momina e infine la voluttuosa Mariella.

Antonioni tratteggia con rapide e impietose pennellate questa società della noia e del benessere, sempre con la sigaretta in bocca e un aperitivo nella mano destra. Solo Clelia sfugge e si ribella alle regole ipocrite che reggono il gruppo e decide razionalmente di tornare a Roma per affermarsi definitivamente nel mondo del lavoro, anche a costo di perdere un potenziale grande amore che però l’avrebbe ricondotta alle ristrettezze economiche patite in gioventù. Le altre donne non riescono ad uscire dal cerchio invisibile in cui sono inserite, chi per abitudine, chi per paura, chi per egoismo.

Non è un film ottimista e per i suoi tempi è un film senz’altro crudo e implacabile. Infatti sono presenti tematiche ardue come quella del suicidio, prima tentato e poi portato lucidamente a termine, come se nella vita di una giovane ricca non ci fossero altre vie d’uscita alla fine di un amore.

A mio parere non è un grande film.

VOTO 5,5 

 

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